la Repubblica, 28 febbraio 2018
Benvenuti dietro le quinte di un mito chiamato Magnum
C’è una foto nell’archivio di Magnum. Non se ne conosce neppure l’autore.
Mostra un gruppo di membri dell’agenzia che ha fatto la storia del fotogiornalismo intervistati dalla Nbc nel 1955: Inge Morath, Burt Glinn, Dennis Stock, Eve Arnold, Ernet Haas. Sopra le loro teste, seduto su un’altalena, volteggia un indifferente Henri Cartier-Bresson.
Sospeso, oscillante, precario, originale, ma appeso al cielo: ecco, il mito Magnum è stato ed è tutto questo.
Difficile dire cosa possa aver pensato Clément Chéroux, grande fotologo e oggi direttore al MoMa di San Francisco, quando un anno fa gli chiesero di ideare Magnum Manifesto, la mostra (attualmente in Italia, installata fra i marmi solenni dell’Ara Pacis di Roma) e il volume celebrativi del settantesimo. Cosa scrivere che non fosse già stato scritto?
Forse era giunto il tempo di pensare il pensiero di Magnum. Di raccontare il Magnum-pensiero di coloro che fecero l’impresa, non solo con le loro immagini, ma nelle loro stesse parole.
Magnum come “paradosso” (John Morris), “posto dove appendere il cappello” (Elliott Erwitt), “macchina promettente e magnifica” (Cornell Capa), “tassonomia di sentimenti” (Henri Cartier-Bresson).
Magnum fu consapevolmente costruita come mito fin dagli albori. Portava il marchio guascone del suo vero inventore, Robert Capa, la sfrontatezza da “club dei fetenti” di quei rompiscatole che pretendevano dai rotocalchi il rispetto dell’inquadratura, della didascalia, della firma. Mito premeditato, a cominciare dal nome (Magnum è la bottiglia maxi di spumante, ma anche il calibro di una rivoltella da età dei gangster). Per anni è stata raccontata la storia di quel brindisi della primavera 1947 nella caffetteria del MoMa, probabilmente mai avvenuto. O del giuramento concorde dei quattro padri fondatori, che poi erano cinque, anche se uno di loro, William Vandivert se ne andò appena un anno dopo, ma fu l’unico, assieme a Capa, a presentarsi davanti al notaio il 22 maggio del 1947, mentre Henri Cartier-Bresson, David “Chim” Seymour e George Rodger erano in giro per il mondo a fotografare, addirittura quest’ultimo seppe solo dopo due settimane, rincorso da un telegramma, di aver fondato l’agenzia di fotografi più ambiziosa del mondo. Mito, come l’“organizzazione penosa”, dai bilanci risanati da Capa a colpi di scommesse sui cavalli, e messi in pericolo “dai nostri nemici naturali, cioè noi stessi” (sempre Erwitt, amorevole sarcastico salvatore di molte crisi). Mito, come le scazzottate epiche fra i soci durante i meeting annuali, o gli epici duelli fra caratteri incompatibili: tra Philip Jones Grittifhs e Martin Parr, tra Raymond Depardon e Sebastião Salgado.
Mito, come l’immagine da confraternita di monaci guerrieri legati da un giuramento, dove si entra a fatica ma non si può uscire (invece se ne andarono in tanti, dopo Vandivert: Charles Harbutt, Mark Godfrey, Mary Ellen Mark, Luc Delahaye, Don McCullin, Eugene Richards, Lise Sarfati, Burk Uzzle, e clamorosamente Sebastião Salgado).
Magnum è stata “un anacronismo” (Lee Jones), un’anarchia funzionante, o l’ossimoro che descrisse il più sovversivo dei suoi reclutati, Antoine D’Agata: “Magnum è un mito e un imbroglio”. Poi però ti addentri nella mostra, dove tutto quel che Magnum ha fatto, ha visto, scoperto, con documenti spesso inediti è rimesso nel contesto giusto, nel tessuto emotivo e storico di parole carta inchiostro; e reportage dopo reportage vedi come in questi settant’anni, e tre o quattro generazioni, il ruolo del fotografo della realtà sia cambiato, in quella fucina di grandi sguardi. E capisci che si può essere pro o contro Magnum, la sua estetica, la sua ideologia, ma non senza.
Che nel fotogiornalismo esistono anche miti efficienti e transitivi, che vengono sì caricati come molle, ma poi agiscono nel mondo delle cose vere. Le mostrano, e un po’ le cambiano.