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 2018  febbraio 28 Mercoledì calendario

Le elezioni spiegate da Walter Benjamin

Non si diventa politici di successo perché si sono vinte le elezioni: si vincono le elezioni perché si è politici di successo. L’inversione del senso comune non è la trovata di qualche spin-doctor odierno e non è contenuta in un manuale di self-help dei nostri tempi, tempi così votati a una cupa furbizia. È la prima delle tredici tesi che il filosofo Walter Benjamin racchiuse in poche pagine scritte (a proposito di cupezza) nel 1928 e intitolate: La via del successo. Dagli esempi che porta, si capisce che aveva in mente soprattutto il successo letterario. Ma della società di massa, allora nascente, aveva capito qualcosa che nemmeno novant’anni dopo si può dare per scontato.
Pensiamo alla politica italiana: se il «successo» è la popolarità e il «risultato» è la vittoria elettorale, il principio di Benjamin risulta meno paradossale. Berlusconi ha cominciato a vincere le sue prime elezioni presentandosi come «vincente», parola che dagli anni Ottanta è diventata più importante come sostantivo che come aggettivo: il vincente non è più colui che ha vinto, ma colui che è destinato a vincere.
Benjamin lo sapeva già e, coerentemente con questo principio, le sue «tesi» non sono polemologiche: non parlano di avere successo sugli altri ma delle condizioni individuali, e quasi spirituali, per «comprendere la lingua nella quale la fortuna ci rivolge la parola». Non conosceva Berlusconi e si può presumere che Berlusconi non conosca Benjamin, ma l’indomito «campaigner» di Forza Italia sembra essere sospinto da intuizioni molto simili. Il suo impiego elettorale dell’appellativo di «presidente» prescinde dall’impossibilità persino di essere candidato ma è utile a confermare un’immagine, perspicua e non ambigua: «La massa distrugge qualunque successo non appena questo le appaia oscuro, senza un suo valore istruttivo, esemplare».
Viene da pensare ai nostri simboli elettorali di un tempo: la croce, la falce e il martello, il sole nascente, persino la fiamma. Come una decorazione per un generale, o per un finanziere, «il suo palazzo» (su cui oggi campeggia l’insegna Trump Building), così l’aura di «presidente» per il prescindente Berlusconi: queste sono immagini univoche e, avverte Benjamin, non hanno nulla a che fare con la «trasparenza», che oggi si predica come valore cultuale.
Si pensa al Movimento 5Stelle, e alla ragione apparentemente oscura per cui la mancanza totale di curriculum dei suoi candidati non pare poterne frenare l’ascesa, quando Benjamin avverte che il successo dipende meno dalla saggezza e dalla preparazione che dalle doti di improvvisazione e che la sua ricerca ha meno a che fare con la volontà che con il gioco d’azzardo. Il candidato annulla la sua personalità come il giocatore si lascia rappresentare dalla fiche che mette sul tavolo verde.
Democrazia interna dei partiti, articolazioni di punti programmatici, coalizioni polifoniche? Benjamin sembra anche criticare il pasticcio pseudo-proporzionale della legge elettorale in vigore quando stabilisce, crudelmente, che il pubblico ha «fame di univocità»: «Un centro, un capo, una parola d’ordine». Forse queste annotazioni di quasi un secolo fa possono aiutare a capire il punto in cui si è esaurito il «momentum» di Matteo Renzi, fra la rottamazione degli esordi, l’accantonamento dell’articolo 18 e la mancata abolizione del Senato. Immagini negative, di cancellazione, da cui non ne è sortita, a contrasto, una positiva: una formula in cui identificarsi, un’immagine delineata e univoca a cui votarsi, e quindi per cui votare. Bene fanno i politici che non riservano le proprie energie alle occasioni maggiori. «Molto è innato, ma molto viene dal training» e quindi occorre esercitare il proprio carisma a ogni momento, affrontare anche le discussioni minori, non apparire sempre con gli occhi affissi alla meta ed essere amabili, soprattutto con i sottoposti. Stare in mezzo al proprio pubblico per amabilmente padroneggiare «la lingua del comando» che, assieme alla «formula della fortuna» è l’Apriti Sesamo del successo. Sia ben chiaro che, prosegue Benjamin con divertente disinvoltura, «imbrogliare è sempre possibile», ma solo per chi non si senta un imbroglione. Fa esattamente l’esempio del «cavaliere d’industria», il cui nome, le cui proprietà e pertinenze emanano una luce gradevole: quella della «buona fede», che non illumina invece il «povero diavolo».
Leggere oggi queste tesi, visionarie e quasi misteriche, costituisce una lezione durissima per ogni idea che si vorrebbe «razionale» della politica. Pensare alla posterità è vano, il successo ha il presente come unico orizzonte.
Pensare che esista qualcosa come una «giustizia» nella gloria è addirittura «farisaico» ed è «uno dei maggiori ostacoli a qualunque riuscita»: il successo arride a chi ne sa gioire indipendentemente dal merito. Un principio tanto beffardo dovrebbe peraltro indurci a interpretare correttamente l’ingannevole mito della «meritocrazia»: la si vende come il potere ottenuto con il merito, ma in realtà è il merito che si ottiene con il potere. La «gloria», che è la dimensione assoluta del successo, non è infatti un «sovrappiù», come fu in passato: «in un’epoca in cui qualunque misera scribacchiatura viene diffusa in centomila esemplari» (e allora non c’erano i social network) la gloria è necessaria, come una condizione di esistenza. Chi non ne ha, non esiste.
Giustizia, competenza, lungimiranza, trasparenza, verità, cultura: si stenta a credere che a farne strame sia stato un filosofo che (sia pure a modo suo) era comunista e scriveva in un’epoca politica che incubava totalitarismi e sterminî. Ma di fronte al «capriccio del gioco stesso del mondo» la dimensione etica a cui quei valori si richiamano ha l’efficacia predittiva e prescrittiva di un oroscopo. Quel che serve è proiettare un’immagine, non farsi sorprendere dal caso, esibire risultati già ottenuti, perché generino ulteriore successo.
Oppure lavorare perché la società di massa diventi diversa da come cominciava a essere all’epoca di Benjamin e come è finita per essere oggi. Che è proprio ciò che un giorno Charles de Gaulle dichiarò: «Vaste programme».