la Repubblica, 28 febbraio 2018
Il vero Byron? Un uomo senza qualità
George Gordon Byron nacque a Londra, il 22 gennaio 1788: quattro anni prima di Shelley, dieci anni prima di Leopardi. Era zoppo: ciò venne subito interpretato da lui e dai suoi nemici come un segno di inferiorità e maledizione. Da giovane era pallidissimo e grasso; e cercò con tutte le forze di dimagrire a costo di fare la fame. Maledetto come lui, Alexander Pope era gobbo. Il padre di Byron, ricco e dissoluto, lo educò con indifferenza e freddezza. Egli evitò la madre: non la considerava madre; e il giorno della sua morte tirò di boxe con l’allenatore. Aveva molti servi.
Correva selvaggiamente a cavallo in tutti i paesi della terra.Nuotava con grande leggerezza attraverso l’Ellesponto e la foce del Tago.
Era violento e rabbioso. Molti dicevano che era pazzo, non di testa ma di cuore. Ora si sentiva una nullità: ora si esaltava in modo parossistico; ora cercava di distruggere. Come disse la moglie: «il suo carattere era un labirinto, ma non esisteva filo d’Arianna per guidarci fino al suo cuore». Tranne Lord Clare non aveva amicizie maschili. Voleva sfuggire e sottrarsi a se stesso: una fuga senza fine. Era come Mitridate: il quale si abituò ai veleni più terribili, finendo per rendere inattivi tutti gli altri quando volle usarli quale rimedi.
Come diceva il don Giovanni di Mozart, amava sopratutto divertirsi, scatenando all’estremo le proprie sensazioni. Poi cadde in un tedio più profondo di quello di Leopardi: «ma sono troppo infingardo per spararmi».
Leggeva moltissimo: Shakespeare, Pope: la Justine di Sade: il Tristram Shandy di Sterne. Avrebbe voluto con sé un Leporello, che raccontasse le sue avventure erotiche. Era amatissimo dalle donne che svenivano davanti a lui: detestava le dame intellettuali; preferiva le donne mature o le serve che violentava negli alberghi. Qualche volta immaginò di essere il re Salomone della Bibbia, o il sultano di Turchia, con immensi harem ai propri ordini.
Dai Turchi apprese la sodomia sistematica: ma già a diciotto anni ebbe una passione per un giovane del Trinity College di Cambridge, e poi un’altra per un giovane greco, col quale attraversò a cavallo il Peloponneso e poi un’altra, poi un’altra ancora e ancora un’altra.
La grande, tremenda colpa della sua vita, l’incesto con la sorellastra Augusta. Per lei scrisse questi versi: “troppo breve per la nostra passione – troppo lunga per la nostra pace – fu quell’ora – può la sua memoria cessare? Ci pentiamo – abiuriamo – per strapparci dalla nostra catena: dobbiamo fuggirci – per unirci di nuovo!” E: “il tuo è un amore al quale non rinuncerei /dovesse questo cuore pagarlo col dolore dell’Eternità”.
Voleva l’incesto: in primo luogo perché sapeva che era una tremenda colpa, e lui voleva vivere nell’abisso della colpa. Abitò per un mese chiuso con la sorella, senza vedere nessuno.
Come poi avrebbe detto Barbey d’Aurevilly, trovò la felicità nel delitto. Quando sposò Annabelle Milbanke, continuò ad abitare insieme alla sorella, in una terribile e beata vita a tre.
Il 28 maggio 1811, a ventitré anni, incominciò a scrivere i Diari ( Un vaso d’alabastro illuminato dall’interno, Adelphi, a cura di Ottavio Fatica, pagine 302, euro 14): da anni scriveva lettere meravigliose – più belle dei Diari ( Vita attraverso le lettere, a cura di Masolino d’Amico, Einaudi); aveva bisogno di comunicare e chiacchierare con un complice o molti complici. Quando era giovane, sembrò voler percorrere la strada di un normale nobile signore inglese: con rabbia e violenza parlò alla Camera dei Lord; ma, dopo sedici mesi, si ritirò dalla Camera, disgustato dalle “pagliacciate” parlamentari.
Alla fine del 1809, scrisse: «non vivrò mai in Inghilterra, il perché deve restare segreto»; chiamò il suo Paese quella “stretta isoletta”, e il 25 aprile 1816 la lasciò per sempre.
Amava moltissimo viaggiare. In tutti i modi: per mare: o su una carrozza monumentale, con una camera da letto, una biblioteca, e tutti gli attrezzi necessari e possibili, e un medico personale, e quattordici servi, e un bulldog e un ermellino.
La sua meta era la Grecia, dove arrivò per la prima volta il 26 settembre 1809. Raggiunse Maratona – molto più bella, disse poi, di Waterloo.
Fu a Costantinopoli, a Itaca (dove restò sei mesi), nelle Cicladi, e ad Atene, ai piedi dell’Acropoli. Vide il Parnaso, sopra il quale volavano dodici aquile.
Dovunque fosse, era incerto: non sapeva quello che voleva; «sono sconvolto dalla totale ignoranza delle mie intenzioni».
Così restava a guardare, senza desiderare e senza volere. A volte fingeva: o gli sembrava di non avere mai vissuto; o veniva posseduto da terribili incubi. Non aveva voglia di sposarsi: «una moglie è una totale tristezza». Poi, subito dopo, pensò che una moglie sarebbe stata la sua salvezza; e il 2 gennaio 1815 sposò Annabelle Milbanke; ma pochi giorni dopo disse che la sua era stata “una luna di melassa”. Ebbe due figlie: la seconda, Allegra, morì a cinque anni; e venne sepolta in Inghilterra senza che nemmeno un’iscrizione la ricordasse. Non vide quasi mai l’altra figlia, Ada. Per tutta la vita ripeté: «credo veramente»: «non sono ateo»; e si chiese: «c’è qualcuno al di là? Chi lo sa?». Come Melville, credeva negli angeli: «gli angeli – ripeté – sono gli unici che io non abbia in uggia».
In quindici anni, Byron compì un’opera immensa. Ma nessuno, più di lui, detestò la scrittura: disse che chi agisce è molto meglio di chi scrive; e aggiunse che «l’unico, il totale, il sicuro motivo che avevo di scribacchiare era quello di sottrarmi a me stesso».
Mi riesce difficile giudicare le opere di Byron. Amava sopratutto l’immenso Don Giovanni: «non ho alcun piano – non avevo alcun piano… perché l’aria di tali scritti è il loro eccesso: per lo meno la libertà di quell’eccesso».
Il suo libro discendeva dal Don Giovanni di Lorenzo Da Ponte e di Mozart, eseguito a Praga il 29 ottobre 1787. Aveva cominciato a lavorare in modo leggero, con una bottiglietta di tocai, una scatola di tabacco di Siviglia e una bella ragazza di sedici anni davanti agli occhi: come Byron avrebbe amato.
Ma il Don Giovanni di Da Ponte-Mozart è una creazione incomparabile, rispetto all’ingegnosa chiacchiera di Byron. Come forse aveva desiderato, morì in Grecia: solo in Grecia – pensava – muoiono i grandi eroi.
Voleva liberare i greci dal dominio turco, sebbene sapesse che erano «forse il popolo più depravato e degradato della terra».
Noleggiò una flotta: il 5 gennaio 1824 sbarcò a Missolungi, nel Peloponneso, con un’uniforme scarlatta, salutato dai greci come l’Angelo Liberatore.
Il 9 aprile venne sorpreso da un acquazzone, che lo bagnò completamente. Aveva brividi e convulsioni: fu salassato, salassato e salassato, contro ogni buon senso.
La domenica di Pasqua, il 19 aprile 1824, alle cinque pomeridiane, disse al servo Fletcher, che da tanti anni lo seguiva: «ormai è quasi la fine, devo dirti tutto, senza perdere un solo istante. Oh, mia povera cara bambina!
Mia cara Ada! Mio Dio! Se solo avessi potuto vederla! Datele la mia benedizione, e anche alla mia cara sorella Augusta».
La voce gli venne meno: il servo poteva afferrare le sue parole solo a lunghi intervalli: Byron continuò a mormorare: «Fletcher, ricordati che se non eseguite ciascuno degli ordini che vi ho impartito, vi tormenterò dall’aldilà... Oh mio Dio, allora tutto è perduto, perché ormai è troppo tardi!». Malgrado gli sforzi, ripeteva frasi mozze, come: «Moglie mia! Figlia mia! Sorella mia! Voi sapete tutto.
Bisogna che diciate tutto».
Il resto fu incomprensibile.
Quando il servo tornò in Europa, la moglie di Byron lo pregò di ricordarsi le parole che il marito non aveva mai finito di dire.
Così finisce la vita di Byron: nell’incomprensibile.