la Repubblica, 28 febbraio 2018
Mirafiori e le ultime trincee del Pd assediate dalle truppe di Salvini
TORINO Alla sera, a casa, quando afferra la maniglia del frigorifero, Valeria tende istintivamente l’orecchio. È una deformazione professionale: «Conosco tutti i rumori del motore di un frigo. Lo costruisco da 18 anni. Fino a ieri pensavo che sarebbe stata la mia vita. Ero stata fortunata. Mi ero diplomata, avevo trovato un posto sicuro a vent’anni. A pochi passi da casa, con il mio compagno che lavora qui. Facciamo lo stesso turno così poi stiamo insieme. Adesso è come se si fosse rotta una sfera di cristallo che ci proteggeva. Che cosa sarà di noi domani? In quale mondo finiremo? Come riusciremo a organizzarci?». Quelle di Valeria Patané, 38 anni, operaia dell’Embraco di Riva di Chieri, sono le domande di tanti a Torino. Non solo dei 500 suoi colleghi sull’orlo del licenziamento. Perché i 400 di “Italia on Line”, ex Pagine Gialle, non stanno meglio. In tutto mille posti a rischio in aziende che producono compressori per frigoriferi ed elenchi del telefono digitali.
La cruda verità la dice Giuseppe Berta, storico dell’industria: «Sono attività a basso contenuto di innovazione. Sono le ultime scie dell’industria novecentesca di Torino». Roba del passato, insomma. Il futuro, al contrario, è quello che racconta Francesco Profumo, già ministro dell’istruzione e oggi presidente della Compagnia di San Paolo, uno dei pochi “bancomat” rimasti a curare le ferite sociali di Torino. Profumo parla di centri per l’innovazione, di «una città che ha un patrimonio di competenze nell’industria innovativa che è unico al mondo. General Motors occupa oggi 1.000 ingegneri laureati al Politecncio per studiare i motori del futuro».
Ecco il vero nodo delle prossime elezioni politiche a Torino: tra Valeria che vive nella scia del Novecento e Luca Trisoglio, tecnico alla Italdesign di Moncalieri che parla con passione «del nuovo modo di disegnare le automobili, perché dobbiamo imparare tutti i giorni ad anticipare i cambiamenti», c’è un abisso. In quell’abisso, nel profondo crepaccio che divide i sommersi dai salvati, lavorano i partiti. Tutti i sondaggi dicono che sono in vantaggio i costruttori di muri. Perché fuori dalla sfera di cristallo, i cittadini come Valeria temono tutto: gli immigrati che vengono a rubare il lavoro e l’assistenza sociale, la fine dei sussidi di mobilità, il mutuo che diventa troppo grande da pagare. La sinistra per vent’anni aveva risposto a queste domande di tutela facendo nascere dai giochi olimpici del 2006 una nuova Torino che vive di terziario, turismo, cultura e innovazione. Oggi quella sinistra ha perso appeal. Fa la parte di Maria Antonietta, parla di brioches agli affamati.
Così sulla carta dei sondaggi il profondo rosso di Torino è un ricordo sbiadito. Domina il blu del centrodestra che nel Pinerolese e nei collegi intorno alla città diventa lievemente azzurro solo per l’insidia del voto grillino. Del centrosinistra non si vede traccia. Resistono, come un’enclave non ancora totalmente espugnata, i quartieri ricchi del centro e la vecchia barriera di Mirafiori. Ma sono rosa pallidi insidiati dalle truppe di Salvini. Si teme che nel rush finale vengano travolti anche loro dall’onda della destra. Nella parte più povera della città, a Torino Nord (campi rom, case popolari e immigrati), gli aruspici dicono che l’effetto Appendino sta indebolendosi. Qui i Cinque Stelle sembrano aver svolto il ruolo di traghettatori, prendendo l’antico voto a sinistra delle barriere operaie e consegnandolo inevitabilmente alla destra. La rabbia ha cambiato cavallo e, dopo l’azzardo grillino, è finalmente approdata al suo porto naturale: «Ci sono mercati che non battevamo nemmeno, erano tradizionale terreno del centrosinistra. Oggi al volantinaggio la gente fa la fila», dice Elena Maccanti, candidata di Salvini, una vita nel Carroccio. Che cosa vi chiedono? «Sicurezza, lotta all’immigrazione irregolare, e lavoro. Tutti, dai giovani ai pensionati».
Al mercato di piazza Bengasi, periferia sudovest della città, Sergio Chiamparino torna a volantinare tra le bancarelle: «Sono qui per dare una mano». Si avvicina un anziano con il cappello di lana: «Eh sì, venite qui solo quando ci sono le elezioni». Chiamparino lo guarda, indossa il migliore sorriso e risponde: «Certo che vengo per quello. Se devo andare al mercato, vado a Porta Palazzo, vicino a casa mia, non attraverso la città». Colto di sorpresa, il combattivo vecchietto si ritira in buon ordine. Ma non è sempre così semplice. L’aria non è facile. Chiamparino non lo dice ma al bar, più tardi, confesserà: «La principale differenza rispetto alle altre volte è che prima i simpatizzanti ti facevano coraggio: “Dai che ce la facciamo”. Con un bel punto esclamativo finale. Questa volta in fondo alla stessa frase c’è spesso il punto interrogativo. Molti si avvicinano per essere incoraggiati». La valanga che potrebbe sommergere il centrosinistra torinese avrebbe potuto essere fermata sommando i voti di Pd e Leu. Almeno Torino sarebbe salva. Ma non si può. Quella che Chiamparino chiama «l’onda lunga del referendum» ha fatto fiorire in città decine di scontri fratricidi. Il più clamoroso è quello che oppone il leuiano Roberto Placido e la parlamentare piddina Paola Bragantini. «Gli ex compagni», li chiamano in città. Lei nata politicamente a Barriera di Milano, allieva di lui nei Ds, si trova a combattere contro l’ex compagno di partito: «Il nostro avversario è il centrodestra», ripete Paola ricordando che «sono il razzismo e il populismo i veri pericoli». Ma non è facile concentrarsi sugli avversari veri durante le lotte fratricide.
Borgo San Paolo, tradizionale barriera operaia del Novecento, quella di Giancarlo Pajetta e Diego Novelli. Qui Luigi, pensionato Inps, ferma Stefano Esposito, senatore Pd in cerca di riconferma: «Avete distrutto il partito. Renzi lo ha trasformato in una nuova Dc». «Voi avete fatto la scissione e adesso anche qui potrebbe vincere la destra», risponde il senatore. Luigi chiude il discorso: «Dovevate pensarci prima». L’idea che anche in questa parte di Torino possa prevalere la destra è un’assurdità, come immaginare un’esquimese in bikini. Eppure può capitare che nel quartiere di Dante Di Nanni finiscano per vincere gli eredi di Mussolini. Al mercato di corso Racconigi Fabio Fichera, già consigliere di Fratelli d’Italia a Collegno, cerca di convincere Carmen Totaro a «dare una mano ad Augusta», la candidata del collegio. Ma Carmen è transessuale. Il dialogo è surreale. «A noi non interessano i gusti sessuali, ci interessa che lo stato tuteli prima gli italiani». «Ma tutti gli italiani? Perché voi ci ghettizzate». «Noi? No. Se non fate quelle manifestazioni di ostentazione dell’omosessualità, se rimanete a casa, noi non abbiamo pregiudizi. Vi daremo anche l’assistenza sociale». Prove di allargamento della base. Diamo una mano ad Augusta.
Se questo è lo stato dell’arte a Borgo San Paolo, la situazione nei quartieri tradizionalmente complicati è ben peggiore per la sinistra. Il rischio del cappotto è reale: si teme l’8 a 0. Renzi prova a infondere ottimismo: «In 6 collegi su 8 ce la giochiamo». Ma la sensazione è che i partiti della paura stiano vincendo la scommessa. Valeria giura che non sa che cosa voteranno i suoi compagni dell’Embraco: «Facciamo delle cene di reparto, per cominciare a salutarci un po’ prima del licenziamento. Ma di politica non parliamo mai». Pudore? «No, paura di dividerci. I partiti in questi giorni ci promettono tanto. Ma da lunedì? Quanti si occuperanno di noi?».
Brutto sentirsi uno slogan elettorale. Complicato per la sinistra recuperare terreno. C’è anche chi percorre strade inconsuete. A Mirafiori, a due passi dai cancelli di Fca, Stefano Schwarz, candidato di Leu, esperto di relazioni internazionali, ha piantato una yurta mongola in un prato e l’ha eletta a sede del suo comitato elettorale. «Voglio essere il candidato della pace», dice. A un chilometro di distanza il quartiere è in rivolta contro gli immigrati che abitano l’ex villaggio olimpico. Difficile che la yurta, perfetta metafora di una sinistra che arranca, serva a raffreddare gli animi. Siamo oltre le brioches di Maria Antonietta. Forse ci vorrebbe altro per vincere.