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 2018  febbraio 28 Mercoledì calendario

Dalle tv alle banche gli eterni conflitti d’interesse di Berlusconi

Marzo 2008, dieci anni fa esatti: il governo Prodi si è dimesso, le Camere sono sciolte, la legislatura è agli sgoccioli e il centrosinistra non è stato in grado di fare una legge decente sul conflitto d’interessi. E mentre il ministro degli Esteri uscente, Massimo D’Alema, liquida la faccenda dicendo che «una legge andrà fatta, ma le priorità sono altre come il lavoro e la sicurezza», Silvio Berlusconi regala ad Alfonso Signorini che lo intervista per Chi uno dei suoi indimenticabili aforismi: «La questione del conflitto d’interessi l’hanno risolta gli italiani, che dal 1994 mi rinnovano la loro fiducia».
Due legislature più tardi la legge invocata a parole per un quarto di secolo ancora non c’è e l’ex Cavaliere, con una condanna definitiva per frode fiscale sulle spalle, confida di tornare a palazzo Chigi per interposta persona a 81 anni suonati. Senza che sia svanito il suo mostruoso conflitto d’interessi. Invece incredibilmente scomparso dall’agenda politica. Seppur dimenticato, tuttavia, il problema è sempre lì. E una rinfrescatina alla memoria farà scoprire che oggi il conflitto d’interessi del politico Berlusconi è ancora più esteso di prima. La ragione è semplice, ed è legata al fatto che la partita delle tivù si intreccia con quella delle telecomunicazioni. La famiglia Berlusconi controlla il 41,3% di Mediaset, posseduta per un altro 25,7% dalla Vivendi di Vincent Bollorè. Ma il gruppo francese è anche con il 23,9% il principale azionista di Tim, e non nasconde di coltivare un progetto industriale nel quale vorrebbe coinvolgere anche la holding televisiva con cui, peraltro, è invischiato in una causa miliardaria. Sulla compagnia telefonica ex statale il nostro governo ha il cosiddetto golden power, cioè il potere di condizionarne le scelte qualora queste siano in contrasto con l’interesse nazionale.
Grazie a questa prerogativa il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda ha ottenuto da Vivendi lo scorporo della rete: il consiglio di amministrazione di Tim dovrebbe decidere martedì 6 marzo, due giorni dopo le elezioni. Il piano prevede la creazione di una società da quotare in borsa, ma non è un mistero che i francesi abbiano proposto al governo italiano di nazionalizzare la rete facendola acquistare a un soggetto pubblico. Ed è qui che si materializza il conflitto d’interessi di chi, azionista Mediaset, si trovasse nella situazione di esercitare un’influenza sul futuro esecutivo. Perché dal governo potrebbe bloccare lo scorporo della rete e mettere in difficoltà l’avversario francese, oppure far comprare la medesima rete a caro prezzo da una società pubblica che finanzierebbe così l’acquisto di Mediaset da parte dei francesi. Magari a un prezzo altrettanto caro. Soltanto suggestioni, naturalmente, ma tutto teoricamente possibile. Come il ritorno dell’ex Cavaliere. Perché Berlusconi non soltanto è convinto di avere la vittoria in tasca dopo essersi «preparato come un atleta per affrontare le fatiche della campagna elettorale», ha detto adesso, ancora a Signorini. Ma promette perfino di rientrare a palazzo Chigi per la quarta volta fra un anno se la corte di Strasburgo gli dovesse fare la grazia di una sentenza positiva. Del resto non ha appena dichiarato, sempre a Signorini, «non mi sento davvero addosso l’età che ho?»
Poi c’è sempre la Rai. E già ne abbiamo viste di tutti i colori: a cominciare dalle nomine. Meno note sono però le ripercussioni sulla raccolta pubblicitaria, determinate soprattutto da un atteggiamento degli inserzionisti che, di fronte al dilemma se investire nella tivù pubblica o nelle reti del presidente del Consiglio, hanno optato per la seconda scelta. I risultati parlano chiaro. Nel quinquennio del secondo e terzo governo Berlusconi i ricavi pubblicitari lordi di Mediaset passarono da 2.467 a 2.955 milioni, con un aumento del 19,8%; quelli della Rai scesero invece da 1.273 a 1.217 milioni: meno 4%. Un’emorragia parzialmente recuperata nei due successivi anni del governo Prodi, ma poi ripresa dal 2008, in coincidenza del ritorno di Berlusconi a palazzo Chigi. Vero è che nel 2008 è iniziata una crisi spaventosa, ma mentre quell’anno il fatturato pubblicitario della Rai crollava di 48 milioni, quello di Mediaset aumentava addirittura di un mezzo milioncino. Fra il 2008 e il 2011, in una situazione catastrofica per il mercato, la Rai ha perso il 19,3% dei ricavi da spot, passati da 1.095 a 884 milioni, mentre Mediaset limitava la flessione al 6,8 per cento, da 2.534 a 2.360 milioni. Considerando l’intero periodo 2001-2011, durante il quale Berlusconi ha governato per circa nove anni, La Rai ha lasciato sul terreno quasi 390 milioni, il quadruplo di quanto perduto da Mediaset. Una flessione del 30,5%, contro una limatura del 3,8% subita dal concorrente privato nonostante la crisi devastante.
Ma che il conflitto d’interessi in capo a Berlusconi sia sempre esistito lo ha riconosciuto anche l’Antitrust quando era presidente Antonio Catricalà, già segretario generale di palazzo Chigi ai tempi dell’ex Cavaliere. C’è una segnalazione del 2011 da lui firmata nella quale si stigmatizza il fatto che in un decreto Milleproroghe, con il quale si prorogava il divieto dell’incrocio proprietario fra tivù e giornali, fosse attribuito al presidente del Consiglio, cioè a Berlusconi, il potere di “disciplinare discrezionalmente il periodo di vigenza del decreto”. E più di una segnalazione, che nessuno peraltro ricorda, non si è potuti andare. La legge sul conflitto d’interessi fatta dall’ex ministro Franco Frattini è uno scherzo: non prevede infatti alcuna sanzione per chi la infrange.
Ma i conflitti non finiscono qui. Attraverso la Fininvest Berlusconi ha il 30,1% di Banca Mediolanum: ne è quindi il principale azionista individuale. Il gruppo finanziario che fa capo alla famiglia di Ennio Doris ha il 3,34% di Mediobanca, che ha sua volta possiede il 13% delle assicurazioni Generali (anche Mediolanum opera nello stesso campo) ed è quotato in borsa. Dunque soggetto alla vigilanza della Consob, i cui vertici vengono designati proprio dal governo. E attualmente lì c’è un posto vacante. Perfino superfluo, a questo punto, rammentare come il capo di un partito che sta al governo possa influenzare anche altre nomine pubbliche: comprese quelle nelle autorità indipendenti che oltre alla Consob possono mettere bocca sulle attività di Berlusconi. Per esempio l’Autorità delle Comunicazioni, i cui vertici scadono l’anno prossimo. La dimostrazione di come si esprima tale influenza è incarnata in Antonio Martusciello, uno dei cinque commissari attuali. Ex parlamentare di Forza Italia, era il proconsole di Berlusconi in Campania. Lasciamo indovinare ai lettori com’è arrivato all’Agcom.