la Repubblica, 28 febbraio 2018
Tajani il neo-delfino spiega i mali del Paese. «Giovani senza ideali»
ROMA Se il Cavaliere può ormai annunciare alla centesima intervista che sarà proprio lui, ebbene sì, il premier del centrodestra in caso di vittoria, è perché il “contratto” con Antonio Tajani è ormai chiuso in tutti i suoi dettagli. Un affare a due, infarcito di clausole e condizioni, che non è stato per nulla facile mettere a punto. E solo con la “discesa” a Roma, la settimana scorsa, del “garante” Manfred Weber, capogruppo Ppe a Bruxelles, la partita è stata blindata. «Io lascio fin da aprile il Parlamento europeo per andare a Palazzo Chigi – è stata l’offerta – a patto di mantenere la candidatura alla premiership e alla leadership del centrodestra, anche se si dovesse tornare al voto nel giro di un anno, nel 2019». Cioè anche in caso di esecutivo dalla vita breve. A maggio del prossimo anno si chiuderà la legislatura che l’ex giornalista e portavoce di FI sta presiedendo dal gennaio 2017.
Sacrificio sì, insomma, ma ben ricompensato. Salvini e Meloni permettendo, ovvio. Perché la precondizione è che Forza Itala arrivi prima e con l’aiuto dei centristi di Nci possa portare quel nome al Colle. «Che sia l’uomo giusto credo sia chiaro a tutti, anche se sarà molto dura per la posizione che ha in Europa – ha ammesso ieri il leader di Fi al forum Ansa- Facebook – Ma Tajani sarà uno splendido difensore delle istanze italiane. Manca solo il suo via libera». Il presidente del Parlamento non perde occasione per rispondere alle lusinghe, ha rilasciato (non a caso) alla Welt tedesca un’intervista da candidato premier in pectore, pur con la solita formula: «Vorrei restare presidente», ormai declinata al condizionale e non più all’indicativo. Di più, definisce il suo capo politico, Berlusconi, niente meno che «l’ultimo grande statista italiano», oggi «unico antidoto» al M5S. «I giovani non credono più nella politica sostiene – mancano loro ideali e passione. Infatti la nostra Nazionale di calcio non parteciperà ai Mondiali perché mancano le nuove leve».
E certo che di ideali, nei suoi esordi politici da liceale, Tajani se ne intendeva: erano ben marcati, a cavallo dei primi anni Settanta.
Quando al liceo Tasso di Roma (frequentato anche da Paolo Gentiloni) militava nel movimento monarchico “Stella e Corona”, poi confluito nel Msi, è finito più volte sotto violente scazzottate dei “compagni” di sinistra. Fino al trasferimento più o meno imposto dai genitori, buona borghesia romana, al Lucrezio Caro.
Cattiveria vuole che fosse più appassionato al biliardino che alla lotta politica di quegli anni. Ma tant’è. Anche da giornalista il suo incipit è al “Settimanale” di Giano Accame, un passato da repubblichino. Come dire, il “Grande ambasciatore” del Cavaliere a Bruxelles negli anni caldi non era un campione di moderatismo. Ma nella vita si cambia, gli angoli si smussano, e anche l’ex vicesegretario del Movimento monarchico giovanile, (è stato anche sponsor a suo del rientro in Italia dei Savoia), può scalare lo scranno più alto del Parlamento e del Ppe targato Merkel. «In fondo ha sempre avuto bisogno di un re», per i perfidi detrattori: chiara allusione a quel che sarebbe seguito. Lui, nel gennaio 1994, invia ai tg, da neo portavoce forzista, le cassette sulla discesa in campo schermate dalla provvidenziale calza di nylon. Nessuno scandalo per Tajani, «solo un comunicato stampa dei tempi moderni». Era già transitato fugacemente dal Gr1 e poi dal Giornale di Montanelli e da cronista parlamentare negli anni Ottanta si è beccato anche due ceffoni dal deputato ex repubblichino Alfredo Pazzaglia, in pieno Transatlantico. Il rapporto con Gianni Letta nasce e si consolida a inizio anni Novanta.
E sarà il luogotenente dell’impero Fininvest-Mediaset a Roma, nel ‘93, a suggerire a Sua Emittenza il capo cronista politico del suo Giornale per aprirgli le porte dei palazzi che contano. Filo spezzato quello tra Tajani e Letta, proprio in occasione delle trattative sulle liste elettorali a inizio gennaio.
Con Berlusconi, invece, il filo non si è mai spezzato, nonostante i 24 anni di rapporto a distanza e le sconfitte in Italia nel 1996 alle Politiche e nella campagna per il Campidoglio del 2001 contro Veltroni. Antonio non gli volterà mai le spalle come tanti altri nel 2013 dopo la condanna. Era stato grazie a lui commissario europeo e ora presidente, da domenica chissà: sta raccogliendo i frutti.
Ma avrà filo da torcere, semmai vincessero. «Non sono euroscettici, ma eurocritici» ha minimizzato ancora ieri a proposito di Salvini e Meloni.
Peccato che la leader di FdI oggi volerà a Budapest per incontrare Viktor Orban, Ppe sì, ma della destra più estrema. «L’Europa che non mi piace è Juncker e Tajani non è Junker», ha aperto ieri Salvini: «Se vince Fi non porto via il pallone». Ma quante incomprensioni tra i due che potrebbero diventare premier e “vice”. «Antipatia? No, siamo solo diversi» precisava il presidente del Parlamento ancora il 6 gennaio. «È stato eletto da un accordo Ppe-Pse» attaccava il leghista. Ora la quiete. Almeno fino al 5 marzo.