Corriere della Sera, 28 febbraio 2018
Costi, disfunzioni e pigrizia: non è un Paese per Pec
Un mese fa un professionista milanese viene convocato dall’Agenzia delle Entrate e invitato a presentare una documentazione entro dieci giorni. Pensando fosse il metodo più rapido e sicu-ro, decide di inviare tutto il materiale attra-verso la Pec. Dopo due settimane si presenta in via della Moscova 2, e scopre che i docu-menti non erano mai arrivati. «Ah, qua la Pec la apre un dirigente ogni sei mesi», si sente rispondere. «Mi raccomando, la prossima volta mandi tutto via email normale, se no qui non arriva niente». Questa storia, e quella della Pec, sono lo specchio perfetto di come funziona la Pubblica amministrazione in Italia. Introdotta dal decreto del presidente della Repubblica n.68 del 11/02/2005 per sostituire digitalmente le raccomandate, ave-va 6 obiettivi: il valore legale della mail, l’in-tegrità del contenuto, la certificazione del-l’invio e della consegna, la certezza dell’iden-tità di mittente e destinatario. Una buona idea, ma pressoché ignorata. Pensando di da-re un’accelerata, nel 2009 l’allora ministro per la Pubblica amministrazione e l’Innovazione, Renato Brunetta, decide di lanciare un pro-getto parallelo, la Cec-Pac: una casella di pos-ta certificata e gratuita per comunicare con la Pubblica amministrazione. Gli obiettivi era-no ambiziosi: attivare almeno 10 milioni di caselle nel primo anno. Nel 2014 le caselle aperte erano appena 2.121.915. Di queste, l’82% non aveva mai inviato messaggi. I costi, invece, erano alti: 19 milioni di euro. Così viene avviata la dismissione, e dal 18 set-tembre 2015 sono stati cancellati tutti gli ac-count esistenti. Mentre l’esperimento di Bru-netta partiva (e poi falliva), il decreto n.185 del 2008 redatto dal ministero di Giustizia – all’epoca presieduto da Angelino Alfano – aveva già stabilito che la Pec, quella originale, sarebbe diventata obbligatoria a partire dal 1° luglio 2013 per tutte le comunicazioni fra cit-tadini, imprese e Pubblica amministrazione, sostituendo definitivamente la raccoman-data in forma cartacea. Il servizio sarebbe sta-to a pagamento, tramite gestori privati iscritti a un elenco pubblico e monitorati. Oggi aprire una Pec costa da 2 a 75 euro, a seconda dello spazio di archiviazione e dei servizi of-ferti, ed è anche obbligatorio per imprese e professionisti comunicare il proprio indiriz-zo certificato agli ordini professionali e al re-gistro delle imprese. Stavolta le cose sono an-date meglio: secondo i dati resi pubblici dal-l’Agenzia per l’Italia digitale lo scorso otto-bre, il numero di caselle attive era arrivato a 8.852.174, mentre risultavano 271.161.064 messaggi inviati. Ci sono voluti 12 anni, ab-biamo buttato via un po’ di soldi, ma final-mente il sistema funziona. L’altra faccia della medaglia è l’analfabetismo digitale dei di-pendenti della Pubblica amministrazione, spesso in là con gli anni, e affetti da pigrizia cronica. Non solo l’Agenzia delle Entrate, anche alla Consob non smaniano: all’impresa richiedono che i documenti vengano man-dati via Pec, ma anche in forma cartacea. Im-maginiamo per evitare di stampare o scan-sionare il materiale ricevuto. L’Agenzia per l’Italia digitale effettua controlli sui gestori, ma non ha compiti di vigilanza sul compor-tamento della Pubblica amministrazione. Spetta al cittadino far valere i propri diritti. La morale di questa storia è che nei palazzi romani, molto spesso, la mano destra non parla con la sinistra, mentre negli uffici pub-blici gli amministrativi non parlano con la tecnologia. Qualcuno ha calcolato l’impatto economico derivante dal risparmio di tempo nella gestione delle pratiche? Quante cartelle pazze nascono da una mancata padronanza informatica? Quanti processi non finirebbero in prescrizione se nelle Procure e tribunali il personale amministrativo avesse maggiore dimestichezza digitale? Allora assumete i nativi digitali, e magari dentro quegli uffici le pratiche marceranno meglio e più velocemente.