il Fatto Quotidiano, 27 febbraio 2018
Gli Atenei accattoni svendono il sapere
L’ospizio di mendicità meglio noto come “università italiana” fu inaugurato festosamente dal duo Tremonti-Gelmini fra leggi, tagli di bilancio, mortaretti e champagne. Prima di quel raid punitivo, all’università si riconoscevano pregi e difetti. Fra i pregi, un alto livello di produttività scientifica, vicino a quello di Paesi con ben maggiori investimenti di settore (pubblici e privati), e un’alta capacità formativa, di cui è prova la prestigiosa collocazione in tutto il mondo degli studiosi formati in Italia. Fra i difetti, una crescente auto-referenzialità e la tendenza al nepotismo di scuola e talora di famiglia.
I due picchiatori allora al governo, contando sulla passività di docenti e studenti, misero in atto un piano ben congegnato, perseguito in sostanza dai loro successori fino a oggi. Da un lato deplorare, con l’aiuto di accoglienti media, difetti e scandali delle università, reclamando l’urgenza di una riforma purificatrice. Dall’altro sbandierare la retorica delle eccellenze, attribuendone il merito a se stessi: alle riforme, a nuove procedure di valutazione, a nuove istituzioni, dall’Iit (Istituto Italiano di Tecnologia) di Berlusconi al Technopole di Renzi che dovrebbe giustificare post factum le spese pazze per l’Expo. La politica dell’università e della ricerca si svolge dunque ormai all’insegna dello slogan “abbasso le università, viva le eccellenze!”. In questa tenaglia, i tagli di bilancio che mortificano ricerca e didattica si trasformano d’incanto in saggia condanna degli sprechi e degli intrighi, anzi in paterni inviti alla virtù e alla penitenza rivolti a una classe accademica di per sé dedita al vizio e allo sperpero.
Definanziando la ricerca, i laboratori, le biblioteche, l’Italia si allontana dai Paesi più fortunati e civili, che vi vedono ormai un serbatoio in cui pescare talenti: studiosi di prim’ordine, formati a spese del contribuente italiano, emigrano a decine di migliaia in tutto il mondo, senza che a compensare questa emorragia intervenga un comparabile flusso in senso contrario. Fatti di palmare evidenza, che tuttavia sfuggono alla maggior parte dei cittadini. L’università italiana, che dovrebbe essere il luogo deputato della progettazione del futuro, si allontana pericolosamente non solo dai suoi omologhi dei Paesi più avanzati, ma anche dalla stessa società per cui nonostante tutto continua a lavorare.
E visto che di competitività si riempiono tutti la bocca, cominciamo da qui. Per essere competitiva, l’università deve rispettare alcune regole generali, le stesse in vigore nei Paesi con cui dovremmo confrontarci. Vediamone alcune. Primo, garantire la stabilità delle strutture, convogliando le migliori energie degli studiosi nella ricerca e nella produzione dell’innovazione. Secondo, rinnovare di continuo sia gli strumenti della ricerca (laboratori e biblioteche) sia il corpo di insegnanti, garantendone la qualità sulla base di una rigorosa considerazione del merito. Terzo, competere con le università dei Paesi comparabili assicurando salari e fondi di ricerca concorrenziali. Su questi tre fronti, l’Italia fa l’esatto opposto. La struttura delle nostre università è stata sconvolta da una riforma pedante e ottusa, che ha modificato la topografia delle discipline raggruppandole in Dipartimenti di estensione e contenuto sempre diversi, con nomi di fantasia che cambiano da una sede all’altra, per cui a esempio le vecchie, oneste Facoltà di Lettere e Filosofia ora sono dipartimenti di Studi Interculturali in una città, Civiltà e forme del sapere in un’altra, Studi Linguistici e Culturali in una terza. Un balletto di etichette a cui non corrisponde nessun progresso di conoscenza ma la moltiplicazione di organi, riunioni, regolamenti, adempimenti e impicci che consumano tempo ed energie costringendo chi vorrebbe far ricerca entro la camicia di forza di una miope burocrazia.
Le tortuosità del sistema vengono giustificate come garanzia di qualità e di trasparenza, ma è arduo dimostrare che quel che a Harvard si può verbalizzare in una pagina a Roma debba richiederne duecento. La verità è che la complessità dell’iter di accesso ai ruoli apre la porta a una valanga di ricorsi, e sempre più spesso a decidere chi va in cattedra non sono gli esperti (che giudicano nel merito), ma il Tar o il Consiglio di Stato (che guardano solo agli aspetti formali).
Su questo scenario sconfortante cala il pesante sipario di una valutazione sempre più ciecamente basata su criteri esterni e sempre meno sul merito delle singole ricerche. Un articolo scientifico viene valutato non per i risultati raggiunti in proprio ma in base alla qualità della rivista che lo pubblica: un mediocre articolo su una rivista “di fascia A” vale molto più di un ottimo articolo in una rivista di “fascia B”. La stolta idea che criteri esterni come questo siano più “obiettivi” del giudizio di merito si è imposta perché spoglia chi giudica di ogni responsabilità etica e professionale. Ma è proprio qui la debolezza intrinseca del sistema: perché l’università e la ricerca, in quanto luoghi supremi del pensiero e dell’innovazione, devono educare prima di tutto alla responsabilità, scientifica e morale. E vengono invece spinte ad abdicare a questa loro vocazione, essenziale per il futuro della società. La moltiplicazione del precariato, l’enorme difficoltà di inserimento dei giovani (anche i migliori), le alchimie interne ai Dipartimenti che spesso tendono a distribuire gli scarsi fondi e le poche cattedre secondo meccanismi non di qualità ma di potere, il continuo inseguimento di fondi aggiuntivi mediante criteri invariabilmente etichettati come “eccellenza” (una delle parole più inflazionate della lingua italiana): questi e altri meccanismi risentono di una sorta di aziendalizzazione dell’università, che ne erode la funzione culturale e sociale.
L’università nel suo insieme, le singole sedi e i loro dipartimenti, i docenti d’ogni grado sono tendenzialmente ridotti a un esercito di postulanti, che tendono la mano chiedendo l’elemosina di qualche decimo di punto organico, di qualche etichetta di “eccellenza”, di qualche spicciolo in più. Ma anche chi crede di vincere questa difficile battaglia fra poveri sta in verità perdendo la guerra: perché per conquistare qualche posizione avrà dovuto piegarsi alla cinica burocratizzazione di ideali e istituzioni come la scienza, l’insegnamento e la ricerca, che dovrebbero essere il luogo dove si coltiva e si esercita la piena libertà intellettuale, la formazione di uno spirito critico, la cittadinanza responsabile. Per centinaia di migliaia di studenti e di docenti l’università è ancora questo: quando tornerà a esserlo per il Superiore Ministero?