il Fatto Quotidiano, 28 febbraio 2018
Ripresina & riforme: favole elettorali sui numeri reali
Con l’approssimarsi delle elezioni politiche il Governo uscente tenta in tutti i modi di magnificare il proprio operato per conquistare consenso elettorale, anche a costo di mostrare una realtà che non esiste.
Il Pil del 2017 è cresciuto dell’1,4-1,5% e fa seguito agli aumenti di 0,1% del 2014, dell’1% del 2015 e di 0,9% del 2016. Tutto merito delle riforme, come sostiene anche il presidente di Confindustria Boccia? Non si direbbe, se si considera che il divario dell’Italia rispetto all’Eurozona è stabile da 4 anni intorno all’1%, a differenza della Spagna che dal 2015 cresce invece a ritmi superiori al 3% l’anno. È evidente che l’Italia, come gli altri partner europei, va a rimorchio di una congiuntura economica favorevole: prezzo del petrolio basso, ripresa del commercio mondiale, bassi tassi di interesse e, almeno fino alla fine del 2016, anche il cambio euro/dollaro che sembrava tendere alla parità. Tutti fattori esogeni che poco hanno a che fare con il Jobs Act, la Buona scuola o l’Industria 4.0. L’Italia deve ancora recuperare il 5,4% del Pil che aveva nel 2007 (prima dell’avvio della grande recessione) e solo la Grecia fa peggio (-25,1%), mentre le altre economie mostrano il segno positivo. Se tutto andrà come previsto bisognerà attendere fino al 2021 per tornare ai livelli pre crisi. Buone notizie, o almeno discrete, sembravano arrivare dal fronte del debito pubblico.
Per il ministro Padoan con il 2017 si è intrapreso finalmente un cammino di discesa, almeno in rapporto al Pil. Lo stock di fine anno comunicato a metà febbraio dalla Banca d’Italia, potrebbe, però, essere rivisto al rialzo per 5,4-6,4 miliardi di euro, vanificando l’obiettivo, se, secondo quanto affermato dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio, “Eurostat richiedesse l’inclusione nel debito delle garanzie concesse dallo Stato nell’ambito degli interventi per la salvaguardia del sistema bancario”. Considerando che la vicenda è nota da diversi mesi, è lecito chiedersi perché si sta attendendo lo svolgimento delle elezioni per conoscere l’esatta consistenza del debito, quando il dubbio poteva essere sciolto ben prima, ponendo per tempo il quesito alla Commissione.
In ultimo, nel presentare l’andamento degli indicatori di benessere comprensivi delle principali misure contenute nella Legge di Bilancio 2018, il ministro dell’Economia ha posto l’enfasi sul miglioramento del reddito disponibile pro capite (aggiustato per i trasferimenti in natura ricevuti per la scuola e la sanità pubblica). In termini nominali, al netto di tasse e contributi, si prevede un aumento di 1.800 euro (+8,3%) tra il 2017 e il 2020. Ma anche questa, nonostante si dipinga il quadro che si va delineando incoraggiante, non è una buona notizia per le famiglie. Le previsioni indicano, infatti, un aumento triennale del Pil reale di 4,4%, mentre il reddito pro capite salirà appena del 2,1%. Ciò vuol dire che la politica economica messa in atto in questi anni dai governi Renzi e Gentiloni lascerà alle famiglie solo le briciole, mentre i dividendi della crescita finiranno in prevalenza a imprese e società finanziarie, se non addirittura all’estero. Senza considerare che l’indicatore utilizzato è insensibile agli aumenti dell’Iva non ancora sterilizzati, che penalizzerebbero ancor di più le famiglie.
Pil, debito pubblico e misure del benessere sono le diverse facce di una medaglia che vede l’economia italiana bloccata da problemi strutturali che nella legislatura uscente non sono stati affrontati in maniera adeguata, per la dispersione di energie in leggi elettorali e riforme costituzionali che hanno fatto la fine che tutti conosciamo. Sarebbe bene, alla vigilia del voto, rappresentare la realtà per quella che è, tralasciando improbabili narrazioni.