il Fatto Quotidiano, 28 febbraio 2018
Miliardi invisibili verso la Cina: così il money transfer sfugge al controllo
Fiumi di denaro che si spostano tra l’Italia e la Cina senza controllo. Decine di miliardi di euro che transitano attraverso money transfer difficili da monitorare perché protetti, almeno fino a pochi mesi fa, da norme che permettevano di eludere i controlli. Soldi spesso legati alle organizzazioni criminali cinesi, come quella che gestiva la logistica di merci contraffatte, bische, ristoranti, locali notturni e appunto money transfer scoperta a gennaio dalla Guardia di Finanza. Nel Milanese, invece, un sistema illegale di money transfer e istituti di pagamento tra il 2013 e il 2016 ha fatto transitare oltre due miliardi e mezzo di euro.
Miliardi. Per capire anche solo in minima parte la portata basta guardare agli ultimi dati delle rimesse di denaro dall’Italia all’estero: nel 2016 quelle regolari sono state pari a 5,07 miliardi di euro. Si tratta di un numero in discesa: nel 2011 erano 7,4 mentre nel 2015 erano 5,2: oltre 2 miliardi in meno. Se si osserva la riduzione nel dettaglio, ci si accorge che dipende quasi esclusivamente da un ridimensionamento delle rimesse verso la Cina. Secondo le ultime rilevazioni dell’Uif, l’Unità di informazione finanziaria, sono scese dai 2,6 miliardi di euro del 2012 ai 557 del 2015 e infine ai 238 milioni nel 2016. In pratica, i trasferimenti ufficiali si sono ridotti a un quinto in quattro anni: sono scomparsi dai radar più di 2,3 miliardi di euro. “La riduzione registrata in questi ultimi anni e la sua velocità di realizzazione – aveva spiegato in un’audizione in commissione Finanze della Camera Claudio Clemente, direttore dell’Uif, – sono apparse anomale anche alla luce degli elementi disponibili e del confronto con l’Agenzia delle dogane e la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo”. In pratica, buona parte della differenza dipende dalla migrazione dei soldi verso cosiddetti “Istituti di pagamento comunitari”, ovvero money transfer con sede principale all’estero e succursali italiane che sfuggivano alla rilevazione statistica italiana perché per legge sottostavano alle regole del paese di origine. “E in linea generale – concludeva Clemente – è ipotizzabile una organizzazione estesa ed efficiente che cambia con rapidità operatori di riferimento a ogni avvisaglia di attenzione sulla loro attività”.
La truffa. A Milano, il nucleo speciale do Polizia Valutaria della Guardia di finanza ha scoperto una rete di decine di money transfer gestiti da cinesi che ha spostato in tre anni oltre 2,7 miliardi di euro. Raccoglievano i soldi nelle sedi italiane fingendo che fosse per conto di un istituto di pagamento inglese. Peccato che in Gran Bretagna non ci fosse segno della sua presenza e che la società italiana a cui veniva destinato il denaro non fosse stata segnalata alla Banca d’Italia. Da Milano, partivano decisioni e direttive, si movimentavano risorse e prestanome e si organizzava il trasferimento del denaro verso la Cina. “Hanno poi affinato il metodo con una sede secondaria di un istituto di pagamento comunitario e la costituzione di due istituti di pagamento nel Regno Unito – spiegano dal Valutario – al solo fine di acquisire la veste ‘comunitaria’ e quindi beneficiare di minore vigilanza”. Tutto collegato ad altre società italiane intestate a prestanome. I soldi, spiegano le forze dell’ordine, arrivavano da crimini di vario genere: dall’usura al nero, fino alle commissioni degli stessi money transfer. Tanto che, durante le indagini, una delle persone coinvolte si lamenta della percentuale troppo bassa di commissione sulle transazioni, pari al 2 per cento. “Stiamo lavorando per criminali – dice – e se devo lavorare per criminali preferisco farlo a Londra dove guadagno il 10 o il 15 %”.
Il sistema.Lavanderie, sali e tabacchi, agenzie di viaggio, bar, centri servizi e internet point: sono solo l’ultimo anello della catena del sistema di money transfer. “Generalmente – spiegano dal nucleo Valutario – i punti vendita funzionano come semplici terminali operativi: identificano il cliente, ricevono le somme da trasferire, registrano le operazioni e perfezionano la rimessa del denaro alla società mandante”. In Italia, l’attività di raccolta e spedizione di denaro all’estero può essere infatti svolta per legge da istituti di pagamento, di moneta elettronica, banche e Poste Italiane nonché da intermediari finanziari che abbiano sede nell’Unione Europea e che operino in Italia con succursali sul territorio.
Debolezza.Se però gli istituti di pagamento nazionali sono da anni tenuti all’iscrizione in un elenco gestito dalla Banca d’Italia, quelli esteri sono sottoposti alla vigilanza delle autorità del Paese dove hanno la sede principale. Questo fa sì che siano tenuti a comunicare alla Banca d’Italia solo l’avvio dell’attività ed eventuali variazioni. Parallelamente, se i punti vendita nazionali sono tenuti ad iscriversi all’albo dell’Organismo per la gestione degli Elenchi degli Agenti in attività finanziaria e dei Mediatori creditizi (Oam), lo stesso procedimento non valeva per quelli esteri. In questo modo, sfuggono ai controlli. O almeno, sfuggivano.
La direttiva. “Con il recepimento della quarta direttiva antiriciclaggio, a luglio, sono stati però introdotti nuovi obblighi anche per i money transfer esteri – spiegano i finanzieri – come l’obbligo di avere una sede centrale in Italia e l’applicazione di tutti i doveri di controllo per gli agenti (a partire dalla corretta identificazione del cliente)”. Inoltre, è stata prevista la creazione di un registro pubblico informatizzato destinato ad accogliere e censire gli estremi identificativi e logistici degli agenti e dei soggetti esteri. Dovranno alimentarlo le stesse sedi italiane. Perfetto, o quasi. L’elenco ancora non è attivo: manca il decreto che dovrebbe renderlo operativo.