Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  febbraio 28 Mercoledì calendario

L’Italia cerca un patto con Mosca contro i gruppi jihadisti in Libia

Italia e Russia sono pronte a collaborare in Libia per fermare le infiltrazioni dei combattenti dell’Isis in fuga da Siria e Iraq, che potrebbero trasformare i loro santuari nel deserto libico in basi per cercare di colpire nel nostro Paese. Nel mezzo della bufera del Russiagate e dei bombardamenti sulla Ghouta, che hanno incrinato ancora di più i rapporti fra l’Occidente e il Cremlino, i canali fra i servizi di sicurezza sono rimasti aperti, perché neutralizzare quel che resta del Califfato è nell’interesse di tutti e la cooperazione non si è mai fermata.
La missione
In questo quadro si è inserita la missione a Mosca di Alberto Manenti, direttore dell’Aise, l’Agenzia informazioni e sicurezza esterna. Manenti si è seduto di fronte alla controparte russa, Nikolai Patrushev, a capo del Servizio federale di sicurezza, l’Fsb erede del sovietico Kgb. Sul tavolo c’era la lotta al terrorismo e in particolare un aspetto che preoccupa l’Italia, lo Stato islamico in Libia. I jihadisti sono stati sconfitti a Sirte alla fine del 2016, ma si sono ritirati nell’entroterra desertico della città, hanno allestito campi di addestramento e compiono attacchi regolari contro le milizie di Misurata alleate del premier libico Fayez al-Serraj, sostenuto da Roma.
Mosca invece appoggia il generale Khalifa Haftar, padrone della Cirenaica, con l’ambizione di diventare il futuro leader di una Libia di nuovo unificata. Poco importa. Nella frantumazione libica agiscono i servizi e le forze speciali di tutte le maggiori potenze, compresa Italia e Russia, e fra i compiti c’è anche evitare il risorgere del Califfato.
Quanti sono
I russi hanno avvertito le controparti che fra Siria e Iraq rimangono «fra gli 8 e gli 11 mila jihadisti» nelle zone remote non ancora riconquistate dagli eserciti siriano e iracheno. Anche se circondati e braccati, hanno già dimostrato di essere in grado di riemergere all’improvviso, come hanno fatto nella provincia irachena di Kirkuk con un massacro di soldati la scorsa settimana, o di «migrare» verso altri fronti: l’Afghanistan, il Sinai egiziano, e di lì, in Libia.
La notizia del vertice, che ha coinvolto anche il capo dell’Intelligence esterna russa, l’Svr, è stata riportata dall’Agenzia Nova. Gli italiani hanno espresso la preoccupazione che il nuovo flusso jihadista possa trovare il modo di infiltrarsi dalla Libia in Italia, vista come porta di accesso all’Europa ma anche come possibile bersaglio.
I russi hanno offerto le informazioni che raccolgono sul teatro mesopotamico, ma anche quelle che ottengono sul fronte libico dai servizi di Haftar, e direttamente dai loro uomini. Mosca ha chiesto l’aiuto dell’Italia nell’impedire che le divisioni in Siria portino a spezzare l’alleanza anti-jihad fra l’Occidente e la Russia. Con la speranza che da questa collaborazione possa anche arrivare un allentamento delle sanzioni.
I servizi siriani
In questa direzione ci sarebbe stata anche una missione a Roma del capo dei servizi siriani, Ali Mamluk. Media libanesi vicini a Damasco, come Al-Akhbar hanno riportato di un suo viaggio «su un aereo privato», in grande segreto perché è sotto sanzioni internazionali, e di un incontro con lo stesso Manenti. Damasco avrebbe offerto informazioni sui combattenti dell’Isis ancora presenti in Siria e chiesto sostegno per far allentare le sanzioni.
L’avvertimento
Anche i siriani, come i russi, avvertono che l’Isis «non è ancora distrutto». Ci sono «sacche» nella regione di Deir ez-Zour e in quella di Hasakah, dove i curdi, distratti dall’offensiva turca ad Afrin, non riescono a entrare. Ma le bandiere nere sventolano persino nella periferia Sud di Damasco, nei quartieri di Yarmouk, Al-Hajar e Al-Tadamon, a pochi chilometri dal palazzo presidenziale di Bashar al-Assad