La Stampa, 28 febbraio 2018
L’oro nero è la nuova arma di Trump. Così frenerà il potere di Putin in Europa
Con un discorso pronunciato alla fine di gennaio, il presidente Trump ha cambiato ufficialmente l’obiettivo della politica americana dall’indipendenza, al dominio energetico. Il termine che ha usato è stato «energy dominance». Questa nuova linea si declina su due fronti: quello interno, per favorire la crescita e creare lavoro; e quello esterno, per potenziare l’influenza globale degli Stati Uniti, e contrastare i rivali che usano l’energia come arma di ricatto. A partire dalla Russia. Infatti la nuova strategia per la sicurezza nazionale, pubblicata a dicembre, ha reso esplicito questo scopo geopolitico, chiarendo che Washington intende «aiutare i suoi alleati a difendersi da chi sfrutta l’energia come strumento di coercizione».
Il dominio energetico americano si basa su tre prodotti: petrolio, gas e carbone. I primi due sono strategici, mentre il terzo è obsoleto, ma va aiutato perché è una promessa elettorale fatta dal presidente ai minatori. La crescita nella produzione è dovuta a due fattori: il progresso tecnologico, che ha facilitato l’estrazione dello «shale» (lo scisto), soprattutto in North Dakota e Texas; e ora la decisione presa da Trump di allargare le esplorazioni in 47 nuovi siti, dall’Alaska agli oceani.
Sul piano economico il vantaggio è evidente: l’aumento della produzione genera ricchezza e lavoro, a patto di conservare un prezzo abbastanza alto per giustificare gli investimenti necessari alle estrazioni di scisto e la ricerca dei futuri giacimenti. Su quello geopolitico gli effetti sono più ampi. Il primo è che incrementando le risorse interne, gli Usa diventano non solo indipendenti da quelle esterne, ma anche capaci di esportare, influenzando prezzi e rapporti di forza. Già l’amministrazione Obama aveva cancellato il divieto di vendere all’estero petrolio e gas. Con Trump il commercio dell’energia è stato accelerato, provocando un forte impatto su vari fronti. Gli Usa mandano gas liquido e petrolio in Europa, dalla Croazia alla Polonia, consentendo a questi Paesi di diminuire la loro dipendenza dalla Russia, e quindi il potere di ricatto di Mosca. Nelle settimane scorse, poi, la prima superpetroliera Usa è salpata dal Louisiana Offshore Oil Port alla volta dell’Asia. Vendendo petrolio in Cina, e negli altri paesi del Pacifico, la Casa Bianca punta a due obiettivi: ridurre il deficit commerciale, ma soprattutto chiudere il mercato al Cremlino, sottraendo ricavi e influenza politica a Putin. Le esportazioni americane, infine, mettono sotto pressione anche il Medio Oriente. A partire dall’Arabia Saudita, che ha bisogno di un prezzo al barile sopra ai 70 dollari per pareggiare il suo bilancio, e può essere spinta a collaborare anche su altri progetti americani, come la proposta di pace tra israeliani e palestinesi che il genero di Trump Jared Kushner sta per presentare. Infine la riduzione delle importazioni Usa può essere usata per mettere in ginocchio il Venezuela, primo esportatore in America. Naturalmente questa strategia deve trovare un equilibrio nel prezzo, perché gli azionisti delle compagnie petrolifere già si lamentano per i bassi profitti dello shale, che diventerebbe insostenibile sotto i 60 dollari.
«Gli Usa – ci spiega l’analista di Citibank Ed Morse – sono già il più grande produttore mondiale di liquidi, sopra Russia e Arabia. Ma le conseguenze reali non sono nelle dimensioni, quanto nell’impatto sui mercati globali. Gli Usa hanno guadagnato fette di mercato a spese di Arabia e Russia, mentre l’Opec e altri Paesi congelavano la produzione. Questa espansione è avvenuta anche in Cina, a danno di altri esportatori. Ciò solidifica il ruolo del dollaro come moneta per i commerci, minando l’obiettivo di Pechino di rimpiazzare il petrodollaro con il petroyuan». Un risiko globale, insomma, che se funziona fa guadagnare gli Usa sul piano interno, consentendo loro di contenere Russia, Cina, e altri potenziali rivali o nemici.