La Stampa, 27 febbraio 2018
Caselli-Andreotti un duello infinito senza vincitori
Andreotti non fu assolto, ma sostanzialmente ritenuto colpevole di rapporti con la mafia nel processo conclusosi nel 2004. Lo scrivono Gian Carlo Caselli, grande accusatore del «Divo Giulio», e Guido Lo Forte, che fu suo collaboratore alla Procura di Palermo (La verità sul processo Andreotti, Laterza, pp. 113, €12).
Fondata sul dispositivo della sentenza d’appello, poi confermata in Cassazione, la tesi non è nuova. Dopo un primo proscioglimento in Tribunale nel 1999, Andreotti infatti nel 2003 in Appello venne assolto solo in parte, per le accuse dal 1980 in poi, e prescritto per quelle precedenti con formula «di non doversi procedere per estinzione del reato commesso». Nella parola «commesso», nel riconoscimento dell’esistenza del reato, sostengono Caselli e Lo Forte, è evidente che i magistrati del collegio giudicante ritennero fondate le ragioni dell’accusa, che solo una pubblicistica e un giornalismo interessato a infangare l’impegno antimafia della Procura ha voluto confutare.
Scritto con la forza di una requisitoria, il saggio tuttavia riesce fino a un certo punto a dimostrare la tesi che si propone. Gli stessi autori parlano di sentenza «dubitativa»; mettono in fila con attenta ricostruzione le riserve espresse dai loro colleghi, che pur non ritenendo sufficientemente provate le accuse, si addentrano tuttavia nelle diverse tonalità di grigio della vicenda; ammettono che si trattò anche di una sorta di processo alla Storia e non solo a un singolo imputato, per quanto eccellente. Il quale, al dunque, se non fu pienamente assolto dalle accuse di rapporti con la mafia, intrattenuti da alcuni degli uomini della sua corrente (vedi Lima), di certo non fu condannato, perché non si riuscì a dimostrare che si fosse mai adoperato personalmente per favorire Cosa Nostra. Questo rimane un fatto innegabile.
Uomo simbolo della Prima Repubblica, e di una certa Italia ormai remota, il sette volte presidente del Consiglio non aveva mai fatto mistero, del resto, di essersi trovato alle prese con le pieghe più complicate della recente storia italiana. La sua presenza in qualità di testimone in altri processi per stragi, tentativi di colpi di Stato, associazioni para-segrete, servizi segreti deviati, e insomma nel noir italiano del primo mezzo secolo della Repubblica confermava questa sua specifica competenza.
Andreotti non negava, ma spiegava, nel suo stile, di essersi mosso sempre per «ragioni d’ufficio». Insomma quel che aveva fatto, quando lo aveva fatto, era stato meglio che fosse stato lui a farlo, nell’interesse del Paese.