Il Dubbio, 27 febbraio 2018
1976: così l’Italia si turò il naso e fermò il sorpasso
La parola chiave era “sorpasso”. Se lo aspettavano in molti, chi pieno di speranza, chi di paura. Mai, prima di quel fatale 1976, la possibilità che il Pci superasse nei consensi era sembrata altrettanto concreta. Mai più lo sarebbe apparsa in seguito. Appena un anno prima, nelle elezioni regionali, il partito di Berlinguer aveva guadagnato 5,60 punti percentuali arrivando a meno di due punti dalla Dc, che aveva invece subito un salasso del 2,46%. Il Pci aveva conquistato Roma e Napoli, a Milano si era insediata per la prima volta una giunta di sinistra: l’onda berlingueriana pareva inarrestabile.
All’origine della slavina c’erano, intrecciate, una crisi economica di proporzioni sino a quel momento inaudite e una crisi di credibilità etica della Dc, anch’essa, nelle dimensioni che aveva raggiunto, senza precedenti. L’inflazione era arrivata all’ 11% e di conseguenza le banche avevano sostituito le monete con “miniassegni” che bastavano da soli a diffondere un minaccioso senso di precarietà. Dalle precedenti elezioni politiche, quelle del 1972, il mondo era cambiato. Era successo alla fine del 1973, con lo shock petrolifero provocato dal brusco rialzo deciso dai paesi produttori di petrolio, e per la prima volta una crisi aveva cambiato le abitudini di vita degli italiani con le misure di risparmio energetico della cosiddetta austerity. Il Pil italiano era in caduta libera, nel ‘ 75 era diminuito del 2,1%.
Quelle furono le prime elezioni dominate dalla coscienza che il boom era finito e non sarebbe più tornato. Era alle spalle già del 1972, ma almeno nella consapevolezza diffusa del popolo votante non era affatto chiaro che un intero ciclo era cambiato e non si trattava di una parentesi, come nel caso della “congiuntura” del 1964. In quell’anno infatti era stata la violenza politica e la reazione spaurita di una parte considerevole dell’elettorato a tenere banco, e il risultato era stata una vittoria secca del Msi, nonostante una crescita anche del Pci che era arrivato oltre il 27%. Nel 1976, nonostante la violenza politica fosse ormai armata, l’argomento fu meno centrale di quanto non si immagini oggi. Proprio una settimana prima del voto, l’ 8 giugno, le Brigate rosse spararono per la prima volta per uccidere. Sino a quel momento gli omicidi non erano stati decisi: erano “capitati” come conseguenze di scontri a fuoco oppure erano stati “incidenti sul lavoro”, come le stesse Br avevano definito l’uccisione di due militanti del Psi a Padova, nel corso di un’irruzione che non avrebbe dovuto provocare vittime in una sezione del Msi nel 1974. Nessun incidente invece nell’attacco che costò la vita al procuratore di Genova Francesco Coco, il magistrato che aveva bloccato in extremis la liberazione dei prigionieri in cambio della vita del pm sequestrato dalle Br Mario Sossi, e dei due poliziotti che gli facevano da scorta. Le Br, ormai guidate da Mario Moretti dopo gli arresti di Curcio e Franceschini e dopo l’uccisione di Mara Cagol, avevano scelto di alzare il tiro e non lo avrebbero mai più abbassato. Tuttavia la crisi economica mordeva molto più a fondo di quanto non facesse la sicurezza, accompagnato da una diffusa sfiducia nella capacità di fronteggiarlo da parte della Dc. Lacerata dalle divisioni interne della sinistra di Moro, che guardava alla collaborazione con il Pci in buona misura proprio per fronteggiare la crisi economica, e una destra che al congresso aveva perso di strettissima misura ed era agguerritissima, fiaccata soprattutto dal presunto coinvolgimento ( rivelatosi poi inesistente) del capo dello Stato Giovanni Leone in una storiaccia di tangenti sborsate dalla Lockheed, la balena bianca sembrava ormai a molti troppo corrotta, troppo corrosa dalla clientela e dal peso delle correnti interne, per reagire alla tempesta con la dovuta solidità.
Berlinguer giocava consapevolmente su questo intreccio tra paura per lo stato dell’economia e sfiducia nei confronti della Dc. Voleva che il Pci non fosse più solo il partito del movimento operaio e degli intellettuali ma che diventasse il punto di riferimento anche della parte più moderna dell’azienda, del ceto medio- alto, della borghesia. Il Pci chiedeva voti in nome della propria “serietà”, opposta al malcostume democristiano. Si offriva come alfiere di un “rigore” necessario a risollevare le sorti sia etiche che economiche della Repubblica.
L’Unità era ormai affiancata dalla neonataRepubblica di Eugenio Scalfari, compiuta espressione di quel progetto politico che mirava apertamente non a sostituire la Dc con il Pci ma ad affiancare i due partiti. Il Pci prometteva di portare in dote, in nome appunto della “serietà” e del “rigore”, quel controllo sull’insubordinazione operaia necessario per varare le politiche anti- crisi.
La campagna elettorale fu una lunga attesa del momento della verità. Una tensione crescente alla quale diede voce Indro Montanelli con un’espressione passata alla storia e che ancora risuona: «Bisogna turarsi il naso e votare Dc». Gli elettori centristi seguirno il consiglio, obbedirono, votarono per la Dc svuotando i forzieri elettorali dei partiti minori che della Dc erano alleati. Il Pci arrivò davvero al suo massimo storico, 34,37%, ma la Dc tenne, perdendo meno di mezzo punto rispetto al 1972 e confermando, con il 38,71% un considerevole vantaggio. La delusione non solo tra gli elettori del Pci ma anche tra quelli della sinistra radicale quella notte era su tutte le facce. Per la sinistra, che si era presentata con il cartello Democrazia proletaria, il colpo fu durissimo. In nome di un “voto utile” ante litteram anche una parte della base della sinistra sino a quel momento extraparlamentare votò Pci. Un’altra parte scelse i radicali, considerandoli comunque ottimi “guastatori”. Il cartello si fermò all’ 1,52% e per i partitini della sinistra, che erano stati grandi come strutture di movimento ma erano superflui come forze parlamentari, fu la pietra tombale.
La notte del 15 giugno le frase più ripetuta all’arrivo dei risultati, nelle piazze piene e deluse della sinistra, fu «Non cambia niente». Invece quel voto cambiò tutto. «Ci sono stati due vincitori», proclamò Moro, spianando così la strada al governo di unità nazionale e alla sconfitta sociale e politica di tutte le sinistre in campo.