la Repubblica, 27 febbraio 2018
«Modello Aids per salvare il mondo»
Intorno agli anni ’20 nelle foreste dell’ex Congo Belga, un virus della scimmia passò all’uomo. Si trattava di Siv (Simian Immunodeficiency Virus), che albergava nei primati senza creare loro troppi danni grazie al fatto che conviveva con il suo ospite da millenni. Purtroppo era – ed è tuttora – capace di mutare con grande velocità. Uno dei “mutanti”, che in realtà avrebbe avuto vita breve all’interno del suo ospite naturale, la scimmia, fece il “salto di specie” cioè riuscì a infettare un essere umano, probabilmente a causa dell’abitudine di macellare le scimmie (a quel tempo la principale fonte proteica nell’Africa occidentale). Il virus era così diventato Hiv ( Human Immunodeficiency Virus). Nessuno si accorse per decenni della sua presenza, perché gli abitanti di quelle terre avevano un’aspettativa di vita molto breve e morivano di altre malattie, ben prima che l’infezione da Hiv potesse provocare l’Aids, la malattia conseguente dalla distruzione del sistema immunitario da parte del virus. Verso gli anni ’60, il virus cominciò a girare per il mondo, a causa della globalizzazione, con l’arrivo dei viaggi intercontinentali. Velocemente è riuscito a infettare, soprattutto per via sessuale, 80 milioni di persone. E a farne morire 40 milioni. Nessun paese è stato risparmiato. La prima, vera, epidemia globale.
L’Aids (Acquired Immune Deficiency Syndrome) fu descritto per la prima volta soltanto molti anni dopo, nel 1981, in California, quando ci si accorse di una strana e nuova malattia che mieteva giovani vite. E il virus responsabile, Hiv appunto, fu scoperto solo nel 1983. Negli anni ’80 e ’90, si moriva di Aids, e l’epidemia sembrava inarrestabile. Eppure, qualcosa di straordinario accadde. Tra il 1994 e il ‘ 96 mettemmo a punto il famoso cocktail di farmaci che ha cambiato la storia dell’Aids: morirne divenne un evento raro alle nostre latitudini. Ma non in altre parti del mondo, nei Paesi in via di sviluppo e soprattutto in Africa, dove fece diminuire di 30 anni l’aspettativa di vita.
Qui si viveva, lì si moriva a milioni. Qualcosa andava fatto. Così, nel 2000, con un gruppo di colleghi, decidemmo di spostare la grande conferenza mondiale sull’Aids, che si teneva sempre nelle grandi città del Nord, lì dove sapevamo fosse il cuore dell’epidemia, in Africa. All’inizio pochi ritenevano possibile portare a Durban 20.000 delegati ( sono i numeri di queste conferenze). Tuttavia tenemmo duro, e anche grazie alla presenza di Nelson Mandela, quella conferenza fu uno straordinario successo: vennero in migliaia, scienziati e pazienti, attivisti e uomini politici, capi di stato e celebrità. E, soprattutto, 1300 testate giornalistiche: l’occidente finalmente fu informato della dimensione planetaria della pandemia, comprese la potenzialità destabilizzante delle disuguaglianze e, finalmente, si mosse. Da Durban prese il via una rivoluzione, soprattutto culturale. L’anno dopo fu creato il Fondo Globale per la lotta a Aids, malaria e tubercolosi. E crebbe la mobilitazione di pazienti e organizzazioni non governative per l’accesso universale ai farmaci antiretrovirali. Grazie anche alle nuove regole sui brevetti, che hanno permesso a Paesi con gravi problemi di sanità pubblica e senza risorse di importare o produrre farmaci generici. Le grandi industrie farmaceutiche hanno anche progressivamente accettato il concetto del “doppio binario”: gli investimenti in ricerca rientrano dai Paesi ricchi, mentre in quelli in via di sviluppo i prezzi si abbattono. Oggi, oltre 20 milioni di persone con Hiv hanno accesso ai farmaci che permettono una vita quasi normale. Avvicinando la disponibilità dei farmaci essenziali al concetto di “bene pubblico”.
La storia della battaglia contro l’Aids (purtroppo non ancora finita, neppure nei Paesi occidentali) è uno straordinario modello di intervento contro le diseguaglianze di salute. La risposta collettiva e multisettoriale nei confronti di un problema sanitario di enorme portata ha unito medici, ricercatori, esperti in salute pubblica, leader politici, società civile, organizzazioni non governative e settore privato. Con l’Aids le tradizionali dicotomie medico/ paziente, prevenzione/ cura, Paesi sviluppati/in via di sviluppo, personale sanitario/ comunità, ricerca/ attivismo – sono cadute. L’Aids ha rimodellato le convenzionali conoscenze in materia di salute pubblica, pratiche di ricerca, atteggiamenti culturali e comportamenti sociali e ha dato origine ad un nuovo e rivoluzionario approccio alla salute e alla malattia, basato sulle persone e sulla comprensione di quanto i diritti umani rappresentino un elemento fondamentale della lotta alle diseguaglianze.
In pratica, l’Aids ha “inventato” la Salute Globale. Ma per capire cos’è, forse dovremmo spiegare cosa non è. Sono quei milioni di donne che ogni anno muoiono dando alla luce un bambino. E i milioni di bambini che non superano i cinque anni. Sono gli oltre 30 milioni di persone che muoiono prematuramente nei Paesi più poveri di malattie che qui sono in gran parte prevenibili e curabili. La Salute Globale è il contrario di tutto ciò: è un’area di ricerca e azione che cerca di migliorare la salute di tutta l’umanità, affrontando le malattie in un’ottica multisettoriale, curando gli aspetti biomedici, sociali ed economici, con un’attenzione particolare alle popolazioni fragili, marginalizzate e povere. Insomma, la Salute Globale, attraverso la ricerca biomedica e sociale, lavora per combattere le diseguaglianze di accesso alla salute. Un fenomeno che, lo sappiamo bene, esiste anche nei Paesi più ricchi. E non si limita alle malattie infettive, ma si occupa anche dell’epidemia crescente di malattie croniche, diabete, malattie cardiovascolari, ipertensione, cancro, in crescita anche nei Paesi a medio e basso reddito e che presentano importanti disuguaglianze in termini di accesso alle cure. Insomma, occorre far comprendere ai grandi della terra che la salute dei popoli non è soltanto un automatico “risultato” dello sviluppo, come si credeva, bensì un elemento fondamentale e necessario per lo sviluppo. Ed è infatti trasversale all’interno dei nuovi obiettivi per lo sviluppo sostenibile, siglati da 193 Paesi delle Nazioni Unite nel settembre 2015. Diciassette obiettivi che parlano, tra l’altro, di impegno globale contro povertà, mortalità materna e infantile, analfabetismo e discriminazione sociale delle donne, contro lo spreco delle risorse naturali e mancanza di acqua pulita, contro le ragioni industriali degli imponenti cambiamenti climatici.
In realtà, quello che dovrebbe preoccupare è che, da straordinaria opportunità di sviluppo, la globalizzazione si stia progressivamente trasformando in un movimento autodistruttivo: urbanizzazione forsennata; crescita del divario economico tra ricchi e poveri; nascita di nuove diseguaglianze sociali; nuovi poteri economici, fondamentalmente “finanziari”; uso smodato delle risorse naturali. Quello che invece dovremmo davvero globalizzare è la salute, perché riguarda da vicino lo sviluppo dei popoli e la pace. Ma l’aria che tira non è buona, con i governi più attenti ad affrontare altre priorità come i tanti conflitti, la crisi economica, e gli inevitabili fenomeni migratori, che spaventano per dimensione ma che sicuramente sono amplificati dall’esistenza delle diseguaglianze, inclusa la salute. Insomma, occorrerà finalmente far comprendere che la salute non è soltanto un diritto fondamentale di ogni uomo ma che in un mondo sempre più interconnesso e globale – occuparsi anche della salute di chi vive lontano vuol dire occuparsi della “nostra” salute e di quella delle generazioni future.