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 2018  febbraio 27 Martedì calendario

La scatola magica resta un mistero. Colloquio con Eric Kandel

Un organo complesso, impenetrabile. Non lo conosciamo né riusciamo a curarlo. Ma il futuro è roseo, grazie all’hi-tech, ai geni. E alla nostra mente D escrivere la mente con concetti biologici è la sfida che la scienza ha deciso di raccogliere negli ultimi decenni. Tanto che per molti la biologia della mente rappresenterà per il XXI secolo quello che la genetica ha rappresentato per il XX. Gli scienziati, infatti, dopo aver esplorato praticamente tutti gli altri organi del corpo hanno rivolto il loro sguardo più in alto – fisicamente e non – al cervello: un lavoro che ha visto e che continua a vedere la collaborazione di tante discipline, dalla genetica alla psicologia, dalla fisiologia alla filosofia, dalle tecniche di imaging alla psichiatria. Uno dei protagonisti indiscussi di questa grande opera di conoscenza è Eric Kandel, premio Nobel per la medicina nel 2000 per la sue ricerche sulla base fisiologica della memoria. Psichiatra, neurologo, neuroscienzato, Kandel ha vissuto da protagonista gli anni della nascita e dei primi successi di quella che lui definisce la nuova scienza della mente. Lo abbiamo raggiunto nel suo studio alla Columbia University, dove è direttore del Kavli Institute for Brain Science, per chiedergli di spiegarci cosa è successo nel mondo delle neuroscienze nelle ultime due decadi e cosa ci attenderà nelle prossime.
Professor Kandel, quanto è cambiato negli ultimi 20 anni nel campo delle neuroscienze?
«Molto, più di quanto ci saremmo aspettati venti anni fa. Da una parte c’è stata l’accelerazione che ha subito al genetica, con lo studio sempre più accurato e profondo del patrimonio genetico umano e dei geni coinvolti sia nel normale funzionamento del cervello sia nelle malattie che colpiscono il sistema nervoso; dall’altra c’è stata la grande innovazione delle tecniche di imaging. È incredibile quanto l’uso di questi macchinari ci abbia consentito di fotografare l’attività cerebrale e fatto capire cosa accade nel cervello sia nel suo stato normale sia quando sono in atto delle patologie. Le due insieme, genetica e imaging, che ora cominciamo a usare in maniera davvero estensiva, hanno cambiato le neuroscienze in maniera sostanziale».
Nonostante le scoperte ci sono ancora molte aree inesplorate nello studio del cervello.
Domande a cui non siamo riusciti a dare delle risposte. Qual è la sconfitta che brucia di più?
«Non penso che nella ricerca sulla salute mentale ci sia anche un solo risultato che potevamo essere sicuri di ottenere. Lo studio del cervello e del funzionamento della mente è troppo complesso. La schizofrenia è un ottimo esempio di quello che voglio dire: è vero che rispetto a 20 anni fa oggi sappiamo di più di questa malattia, abbiamo compreso alcuni meccanismi che sono alla sua base, per esempio abbiamo capito che l’ippocampo è coinvolto e abbiamo identificato una serie di geni che concorrono al suo sviluppo. Ma nonostante questi risultati positivi non abbiamo ancora una conoscenza soddisfacente di questa patologia. A dire il vero non abbiamo una buona conoscenza neanche della coscienza, ma questo è un capitolo molto più complesso».
Quale invece il successo più grande?
«Uno dei passi avanti più importanti è quello fatto nella ricerca di cosa avvenga nel cervello quando si soffre di depressione, maggiore comprensione che abbiamo potuto acquisire soprattutto grazie all’imaging. Il lavoro condotto da Helen Mayberg della Emory University ha dimostrato che sono due le aree del cervello coinvolte nella malattia, l’area 25 e l’insula, e che è possibile mappare l’attività di queste zone e “vedere” così la depressione. Tanto che quando le persone stanno meglio, per esempio, grazie a terapie psicologiche o alla somministrazione di farmaci, l’attività cerebrale di queste aree rispecchia il miglioramento».
Negli ultimi anni sono stati lanciati due grandi progetti internazionali per lo studio del cervello, la US Brain Initiative e lo Human Brain Project. Cosa ne pensa?
«A essere sincero penso che entrambi i progetti saranno piuttosto deludenti. Non penso che quando saranno finiti potremo dire: ecco, abbiamo capito come funziona il cervello. Finora sono stati fatti piccoli passi in avanti in alcune aree, ma nulla di eclatante. D’altronde però non saprei dire cosa si sarebbe dovuto fare di diverso. Mi sembra che l’obiettivo di entrambi sia troppo esteso. Si ottengono risultati migliori con progetti più specifici».
Per esempio? Ci può fare un esempio di un progetto condotto negli ultimi anni che ha portato buoni frutti?
«Le ricerche sull’autismo finanziate dalla Simons Foundation Autism Initiative. James Simons è un matematico molto dotato, una mente molto brillante, ed ha un figlio autistico. A partire dalla sua esperienza ha chiamato a lavorare nella sua fondazione Gerald D. Fischbach, uno scienziato d’eccezione, lasciandolo libero di condurre la sua ricerca. Sono state identificate molte famiglie con bambini autistici, riuscendo in questo modo a individuare diversi geni coinvolti nella malattia. Grazie a questo lavoro abbiamo oggi molte più informazioni di quante ne avessimo prima, informazioni che ci servono per elaborare strumenti diagnostici e strategie terapeutiche. Direi che grazie a questo progetto e altri simili i progressi ottenuti nella conoscenza dell’autismo negli ultimi 20 anni sono stati tra i principali raggiunti nelle neuroscienze».
Nel corso degli ultimi anni abbiamo quindi accumulato conoscenza sui meccanismi alla base delle malattie che colpiscono il cervello.
Eppure non sembra che queste scoperte abbiano portato allo sviluppo di soluzioni terapeutiche o farmaci. Come mai?
«È difficile comprendere il cervello perché si tratta di un organo estremamente complesso e per molti versi poco raggiungibile. Conosciamo ancora davvero poco del suo funzionamento che viene “protetto” da incursioni esterne per ragioni di tipo biologico evidente: l’organismo ha costruito delle barriere e sviluppato dei sistemi di riparazione che ci impediscono di capire agilmente cosa accade lì dentro. Abbiamo lavorato molto negli ultimi anni, cominciamo a fare dei progressi, ma i problemi che dobbiamo affrontare sono troppo difficili per poter essere risolti in poco tempo. Prendiamo per esempio il caso della malattia di Alzheimer. A causa della patologia si perdono cellule nervose, e sappiamo che una volta perse queste cellule non potranno più ritornare. Quando un paziente sviluppa i sintomi della malattia in realtà questa degenerazione è andata avanti per diversi anni nel suo cervello e molte cellule nervose sono già andate perse. E nessun farmaco che noi potremo mai sviluppare riuscirà a riportare in vita quei neuroni. La sfida quindi è quella di diagnosticare la malattia prima che si manifesti in maniera evidente, cioè di leggere quello che accade nel cervello durante le prime fasi, quando sono ancora poche le cellule danneggiate. L’unica speranza che abbiamo di poter curare questa malattia è quella di riuscire a diagnosticarla molto precocemente. La via è quella dell’individuazione di marcatori, spie biologiche che ci indichino chi è a rischio. Stiamo cercando di trovarli studiando chi ha una predisposizione genetica all’Alzheimer, individui che sappiamo svilupperanno la malattia. Abbiamo capito la direzione da seguire, ma la strada è ancora lunga».
A che punto siamo invece con la scoperta di farmaci per i disordini psichiatrici? Pensa che sarà possibile nei prossimi anni trovare delle terapie migliori per la depressione o la schizofrenia?
«Sì, sono ottimista e penso che presto potremo avere delle risposte anche per questi problemi. Nel caso della depressione abbiamo già sviluppato dei farmaci e all’orizzonte vedo diverse ricerche che stanno mettendo in luce altre sostanze interessanti ed efficaci. È il caso della ketamina che si sta dimostrando in grado di agire velocemente, in maniera sicura e con buoni risultati. Difficile e lento, invece, il cammino che ci porterà a trovare una soluzione per la schizofrenia. Ma sono comunque molto ottimista rispetto a quello che riusciremo a ottenere nei prossimi 20 anni».
Da cosa dipende questo suo ottimismo?
«Rispetto al passato i ricercatori che decidono di dedicarsi alle neuroscienze sono più numerosi e anche la qualità media delle persone è piuttosto alta: molte delle migliori menti in tutto il mondo hanno deciso di dedicarsi alle neuroscienze. Per questo penso che il futuro di oggi è molto più brillante di quello che era il nostro futuro 20 anni fa. La metodologia è migliorata, l’imaging ci ha consentito di capire molto di più di come funziona il cervello, la genetica ha fatto luce su alcuni dei meccanismi alla base dello sviluppo delle patologie.
Abbiamo fatto molti progressi e se mettiamo tutto questo insieme non possiamo che essere ottimisti per il futuro: nei prossimi 10- 20 anni troveremo molte delle risposte alle domande che oggi ci facciamo».