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 2018  febbraio 27 Martedì calendario

La partita fatale tra centrodestra e M5S nell’isola delle promesse tradite

Palermo Sono rimasti in 421. «Una volta qui ne entravano tremila, quattromila al giorno. Adesso siamo questi, e saremo sempre meno. Anziché investire qui, cercano di farci andare al Nord. Nei cantieri navali di Palermo si costruivano le piattaforme petrolifere, ora siamo ridotti a un’officina meccanica», smoccola Francesco Foti. Ha 43 anni, è il segretario della Fiom di Palermo e fa parte di una razza in via di estinzione, in Sicilia. Via la Fiat, via l’Ansaldo Breda, i rimasugli della classe operaia restano aggrappati alla striscia di mare che via Francesco Crispi separa dal corpaccione di Palermo. «Da questa città scappano tutti, si è tornati indietro, ai tempi dell’emigrazione», insiste Foti. E i suoi compagni d’avventura fanno a gara a chi ha più parenti, figli, cugini o cognati fuggiti all’estero. Germania, come ai tempi della valigia di cartone. Con amarezza, Foti rimarca quanto grande sia «la distanza della politica», e racconta le promesse che per anni li hanno soffocati inutilmente. Racconta dei 45 milioni stanziati dalla Regione per i bacini di carenaggio nel giugno 2010, e che nessuno ha mai visto: nascosti come sono in qualche cassetto. Voteranno Liberi e Uguali, ma non perché confidino in un cambiamento radicale. Per la persona, piuttosto: Pietro Grasso, palermitano. Un atto di fede, o giù di lì.
Ma pure ai cantieri, l’ultimo avamposto, c’è qualcuno che sarà sedotto dalla valanga grillina. Anche se poco distante, a Bagheria, il nuovo che avanza non si è mostrato poi così nuovo, nella difesa dell’abusivismo “di necessità”. E di sicuro c’è pure chi nel segreto dell’urna si farà incantare dalle sirene leghiste, che cantano pure qua la stessa musica. Titolo: “Abolire la legge Fornero”, ma è lo stesso partito che 14 anni fa al ministero del Lavoro fece il famigerato “scalone” per le pensioni d’anzianità. Poco importa, sulla Lega certi politici siciliani si sono buttati a pesce. Il segretario regionale si chiama Alessandro Pagano: da Alleanza cattolica a Forza Italia al Pdl al Nuovo Centrodestra, per approdare infine a Noi con Salvini. Più facilmente, ci sarà chi il 4 marzo preferirà restare comodamente a casa. E a farne le spese, come quasi ovunque al Sud sarà il Partito democratico. Ad arrestare la frana, con ogni probabilità, non servirà nemmeno quella specie di rinfrescata che si sono dati i ribelli antirenziani con la nascita di Rigenerazione Pd, la corrente dei «partigiani».
Chi spera in una miracolosa rianimazione è il sindaco Leoluca Orlando, che si è iscritto al Pd e contesta la tesi che il Sud sia stato lasciato a se stesso. «In trent’anni nessun governo aveva fatto tanto per il Mezzogiorno come quello di Matteo Renzi», dice, ricordando la stipula del “patto per il Sud”. Ma è duro convincere chi si sente abbandonato da una politica incapace di risposte: a Palermo come nel ragusano, dove si gira un altro film ad altissima intensità pentastellata.
Millecinquecentododici chilometri separano Bolzano da Ragusa. In auto sono almeno sedici ore di viaggio, due in più di quelle necessarie ad arrivare a Parigi partendo da Roma. Candidata all’uninominale a Bolzano e capolista al proporzionale a Ragusa, l’aretina Maria Elena Boschi si avvia dunque a conquistare il record ineguagliabile della campagna elettorale più lunga della storia. Geograficamente parlando, visto che fra Bolzano e Ragusa ci sono dieci paralleli. Una follia stereoscopica, se è vero che i candidati dovrebbero rappresentare il territorio. Ma in questo caso, al contrario, la decisione è stata presa a ragion veduta. Ossia, quella che spinge a tenere la ministra Pd il più lontano possibile da casa sua e quindi da Banca Etruria: la popolare che ha fatto crac con suo papà alla vicepresidenza.
Salvatore Barrano, candidato sindaco di Vittoria nel 2011 per l’Udc, ipotizza che la scelta di Ragusa avrebbe a che fare con il sostegno garantito a Boschi dagli ex margheritini del sindaco di Catania Enzo Bianco. Comunque sia, da quella maledizione bancaria Maria Elena non riesce proprio a liberarsi. La città siciliana dov’è stata paracadutata è alle prese con la vicenda di un’altra banca popolare. La Banca agricola popolare di Ragusa si trova certo in condizioni ben diverse da quella di Arezzo. Le sofferenze, secondo un bilancio 2016 chiuso in lieve perdita, non arrivano al 9 per cento. Anche se 358 milioni sono pur sempre una bella cifra, e 617 milioni complessivi di crediti deteriorati non sono uno scherzo. Fra i 14 mila soci, però, c’è chi non nasconde il malcontento per la gestione targata Giovanni Cartìa, classe 1928, da sempre padre padrone della popolare e ancora ben saldo alla presidenza dell’istituto di cui è direttore generale suo figlio Giambattista Cartìa. I contestatori chiedono un rinnovo della classe dirigente in chiave non familistica e di farsi rimborsare le azioni della banca da loro sottoscritte. La battaglia rischia di spostare ancor più l’ago della bilancia che già pende verso i grillini. Come dimostra la bordata contro la banca partita sei mesi fa alla Camera da cinque deputati del M5s, sotto forma di una caustica interrogazione parlamentare.
La popolare di Ragusa è parte essenziale dell’ingranaggio economico che tiene in piedi questa parte della Sicilia. Anche se Vittoria, il secondo centro della provincia con 60 mila abitanti, ha dovuto negli anni cedere a Fondi lo scettro di primo mercato ortofrutticolo del Sud, la massa di denaro che qui muove l’agricoltura è imponente. Un miliardo e 200 milioni, almeno. Tanto vale la produzione di circa 3 mila aziende con 3 mila ettari di serra e il relativo indotto. Troppo, perché la mafia catanese non si contenda con quella palermitana e la “stidda” di Gela il controllo di parte degli affari. In una situazione che non è rose e fiori. «Almeno il 70 per cento delle aziende agricole è all’asta. I produttori sono strozzati dai prezzi imposti dalla grande distribuzione, con una filiera che fa lievitare i costi all’inverosimile. Un chilo di pomodoro ciliegino esce dal campo a 80 centesimi e arriva al supermercato a 6 euro», denuncia il consigliere di Fedagri- Confcooperative Carmelo Criscione che in passato si era impegnato per una riforma del mercato con i fondi europei mai diventata realtà. «Democristianamente affossata», insinua. Come anche la fatturazione telematica: la rete informatica costata 1,7 milioni non è stata mai utilizzata e ancora oggi si fa tutto manualmente.
In questo contesto prospera l’astensionismo e decolla il consenso per il Movimento 5 stelle. A Vittoria la sinistra ha già dovuto cedere il passo alla destra. Sostenuto dagli intermediari del mercato, due anni fa si è affermato il sindaco Giovanni Moscato, poi finito indagato per la presunta assunzione clientelare di 60 netturbini segnalati dal suo predecessore del Pd, come ha raccontato la nostra Alessandra Ziniti. E per il Pd è stata un’autentica débacle: su 25 consiglieri comunali i dem non sono che due. Uno meno dei grillini. Che ora sembrano lanciatissimi. Non era andata meglio a Ragusa, tre anni prima. Il candidato del centrosinistra Giovanni Cosentini era sicuro del successo. Al primo turno il suo avversario al ballottaggio Federico Piccitto, dei 5 stelle, non aveva racimolato che 4.700 voti, un misero 15,6%. Ma due settimane dopo quella percentuale si sarebbe più che quadruplicata, sfiorando il 70%.
C’entra la generale disaffezione per i partiti, ritenuti responsabili di aver abbandonato il Sud. Ma anche un risentimento preciso nei confronti dei politici siciliani. «La verità è che i grillini si muovono mentre gli altri stanno fermi. Per esempio, quando si è trattato di battere i pugni in Europa per la nostra agricoltura, sono stati loro gli unici che l’hanno fatto», ammette Salvatore Barrano. E Ivan Lo Bello, a lungo presidente di Confindustria Sicilia, riconosce che nell’isola, e soprattutto in quella parte, «la più importante e produttiva», il fenomeno dei 5 stelle «sta assumendo proporzioni impressionanti». In pochissimo tempo «è cambiato tutto», dice. «Questo sembra un segnale alla politica, che qui si è comportata in modo assai deludente. E anche le imprese, sicuramente quelle piccole, ma non solo, pare che vogliano spedire un messaggio ai partiti. Dalla Sicilia, e pure dalla Calabria, dove fino a poco fa le posizioni del Pd sembravano saldissime». Un altro fronte aperto...