la Repubblica, 27 febbraio 2018
Embraco & Co. le multinazionali che se ne vanno
TORINO Asfalto posato di recente, una recinzione alta e ordinata, una fabbrica nuova di zecca e una scritta rosso fuoco sulla porta d’ingresso: “Honeywell”. Eccola l’altra Embraco, spuntata sei anni fa a Prešov, in Slovacchia. Proprio come il gruppo brasiliano, anche questa multinazionale statunitense ha deciso di spostare la sua produzione italiana in questa stessa area dell’Est Europa, chiudendo la fabbrica di Atessa, in Abruzzo. Si è così aggiunta alle circa 270 imprese straniere che hanno scelto di disinvestire dall’Italia negli ultimi dieci anni.
Lo stabilimento chietino di Honeywell smetterà di produrre il 2 aprile e ne faranno le spese 420 tra operai e impiegati. La loro vicenda è quasi identica a quella dei 497 operai della Embraco di Riva di Chieri, nel Torinese, solo che loro hanno dieci mesi di cassa integrazione a disposizione, mentre i colleghi piemontesi saranno licenziati se non si troverà un’intesa entro il 25 marzo. Ieri, tuttavia, è arrivata quasi un’apertura da Whirlpool Brasile che controlla Embraco: «L’azienda è consapevole delle proprie responsabilità nei confronti dei dipendenti e si impegna a lavorare in stretta cooperazione con i sindacati, le autorità di governo e locali al fine di trovare soluzioni adeguate e praticabili per tutti».
Non un ritiro dei licenziamenti ma un segnale di distensione con la conferma, però, che appare «impossibile rendere lucrativa la fabbrica». Si vedrà.
Proprio oggi una delegazione di lavoratori sarà in Belgio con il governatore Sergio Chiamparino per chiedere impegno al Parlamento Ue.
Ma perché anche la Honeywell vuole delocalizzare in Slovacchia la produzione di turbo per motori? Per capirlo basta parlare con gli addetti di Prešov: «Lo stipendio netto per un operaio va dai 500 euro al mese a salire. In Italia un metalmeccanico guadagna il triplo? Allora è chiaro perché Honeywell viene a produrre qui», nota un dipendente slovacco. In più, il Paese dell’Est Europa copre fino al 35% del costo degli investimenti di chi si insedia oppure stanzia tra i 20 mila e i 30 mila euro per ciascun posto di lavoro creato. Il ministro dello Sviluppo economico italiano Carlo Calenda ha chiesto alla Commissione europea se tutto ciò avvenga nel rispetto delle regole e senza usare fondi Ue, segnalando proprio i casi Embraco e Honeywell. Ma dalla Slovacchia arriva la stessa risposta data per la vicenda della multinazionale brasiliana: «In questo caso, non abbiamo fornito alcun supporto agli investimenti di Honeywell e non abbiamo informazioni sul trasferimento di posti di lavoro», fanno sapere dal ministero dell’Economia.
Resta il fatto che quasi mille tute blu italiane saranno licenziate.
E non è un fenomeno nuovo.
Secondo i dati di Reprint-Italia, nell’ultimo decennio se ne sono andate 59 aziende americane, 40 francesi, 37 tedesche, 36 britanniche, più altre cento società di altre nazionalità. Nella metà dei casi le multinazionali sono fuggite lasciando macerie o poco altro, nell’altra metà sono invece subentrati soci italiani. Il disinvestimento di imprese straniere dall’Italia, in realtà, ha radici più antiche: tra il 2003 e il 2009 gli addii sono stati in media un centinaio l’anno, mentre sono calati nell’ultimo periodo. Marco Alberto Mutinelli, economista dell’Università di Brescia e curatore del rapporto del Mise “Italia Multinazionale”, ha messo insieme i dati del 2017: «Se si guarda alle sole partecipazioni di controllo di multinazionali estere, nel 2017 abbiamo registrato finora 15 cessioni a investitori italiani, con circa 750 dipendenti coinvolti, e 30 tra cessazioni e fallimenti, con 1.750 addetti interessati». Certo, poi c’è anche l’altro fenomeno, quello delle multinazionali che invece acquisiscono e rilanciano aziende italiane. Lo scorso anno l’economista ha contato 160 nuove acquisizioni (che hanno riguardato 17.800 addetti) e 20 imprese create, che a loro volta hanno dato origine a 200 posti di lavoro. Ma nel computo andrebbero anche considerati gli investimenti di imprese già esistenti: «Quelli di Bulgari, Lamborghini e Bat, da soli, valgono circa mille posti di lavoro addizionali», evidenzia Mutinelli.
Nei casi Embraco e Honeywell, il disinvestimento è coinciso con una delocalizzazione. Ma questo è solo uno dei possibili comportamenti: «Alcune multinazionali hanno chiuso sedi italiane semplicemente perché avevano come riferimento il mercato del nostro Paese, che in alcuni settori si è sgonfiato. Altre invece se ne sono andate perché erano attive in comparti in cui l’Italia è debole e poco competitiva, come in quasi tutte le produzioni su larga scala a basso contenuto tecnologico», dice il docente dell’Università di Brescia.
Che però vede comunque il bicchiere mezzo pieno: «Ci sono molte imprese che scelgono l’Italia perché vi si possono fare produzioni eccellenti a costi contenuti, ad esempio rispetto alla Germania. Ma sta al Paese essere competitivo: non si può forzare un’azienda a scegliere».