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 2018  febbraio 26 Lunedì calendario

LA PAZZA VITA DI RAFFAELE PISU – UN ANNO IN LAGER, RADIO CON GAFFE (CORRADO: "E ORA UN GRADITO BRANO WAGNERIANO, LA VALCACATA DELLE VALCHIRIE"), IN TV CON BRAMIERI E' "L'AMICO DEL GIAGUARO", CINEMA E FUGA A SANTO DOMINGO – ‘’MARCELLO MARCHESI È MORTO FACENDO IL MORTO. GALLEGGIAVA SULL'ACQUA E PENSARONO CHE FACESSE IL MORTO A GALLA, INVECE ERA MORTO DAVVERO BATTENDO LA TESTA CONTRO UNA ROCCIA"  -

In una giornata di neve in cui Imola sembra una località di montagna vado a trovare Raffaele Pisu: un pezzo imprescindibile della televisione italiana. Ha quasi 93 anni e un sorriso che rapisce. Il figlio naturale, Paolo, mi viene a prendere alla stazione. Ad attenderci Leda, grande cuoca, e moglie di Raffaele. La casa è modesta e accogliente. Lo trovo chino al tavolo mentre disegna. Dice che non sa se è un passatempo o qualcosa di più impegnativo. A giudicare dai soggetti, lavorati con matita e carboncino, propenderei per la prima ipotesi.

Tra le ultime notizie che lo riguardano c' è un film in uscita (a maggio) Nobili bugie. Quasi un risveglio dal letargo. Una storia diretta dal figlio Antonio, con attori importanti: Claudia Cardinale, Giancarlo Giannini, Ivano Marescotti e naturalmente lui: Raffaele Pisu, nella parte di un duca decaduto che durante la guerra si arrangia come può.

Come è stato tornare al cinema? « Come tornare dalla guerra; stanco e speranzoso. Insomma, una vita in cambio di un sogno».

Vuoi dire che hai fatto la guerra? « Beh, l' età c' era. Mancava la voglia. Ho fatto il partigiano. Nel 1943 fui rastrellato dai tedeschi, messo in un carro piombato e portato in Germania. Fui sbattuto in un campo non distante dal confine con l' Olanda. Vi passai un intero anno. C' erano, oltre a noi italiani, prigionieri russi e francesi».

I tuoi familiari?  «Non seppero nulla fino alla fine. Dal treno gettai un biglietto, sperando che qualcuno lo raccogliesse e lo portasse ai miei genitori. Non fu mai recapitato, perciò nessuno andò oltre la supposizione che fossi morto».

Come fu quell' anno? « Dovrei dirti drammatico, perché c' era gente malata, debole, moribonda. Mi spaventai vedendo esili figure umane simili a scheletri. Pensai che anch' io mi sarei ridotto così. I più resistenti lavoravano. Raccoglievamo la legna o aiutavamo i contadini nei campi. Le razioni di cibo erano minime. La fatica enorme. La notte capitava che dovessi scaricare casse di birra per i piloti di aviazione. Su un tavolo dell' ufficio vidi dei bollini e li rubai. Ogni bollino dava diritto a cinquanta pacchetti di sigarette».

Ti desti al contrabbando? « In un certo senso. La fortuna volle che intermediario di quei traffici fu un sergente affetto da tabagismo. Gli davo un bollino alla volta e lui lo scambiava al circolo ufficiali. In cambio delle sigarette ci riforniva di burro, cioccolata, pane. Poi un giorno il comandante del campo si accorse del movimento e minacciò di fucilarci. A quel punto finirono i traffici. Salvo riprendere quando il sergente venne da me e disse che il comandante aveva finito le sigarette! Fummo liberati nel 1945».

Come fu il ritorno? «Un' odissea. Ci volle qualche mese perché tornassi a Bologna. A quel tempo, cominciai a frequentare il Bar dei Cacciatori, un luogo storico della città, dove conobbi Enzo Biagi e Lamberto Sechi. Ci veniva anche Sandro Bolchi. Insieme decidemmo di fondare un teatro. Lo chiamammo " La Soffitta". Il sindaco Dozza ci diede un milione per iniziare l' attività. Scritturammo Memo Benassi e partimmo con Il Tartufo di Molière».

Quando arrivasti a lavorare in Tv? «Non subito. Mettemmo su la compagnia di rivista della Rai. C' erano, fra gli altri, Gianni Bonagura, Paolo Ferrari, Nino Manfredi. Spesso i testi erano di Marcello Marchesi, l' uomo più straordinario che abbia conosciuto».

Quasi un Flaiano più popolare « Una sua battuta riassumeva un mondo o uno stato d' animo. "Anche le formiche nel loro piccolo si incazzano", era sua. In un periodo per me piuttosto infelice mi regalò un libro con una sua dedica: "Raffaele aiutati perché Dio c' ha da fare". È morto facendo il morto».

Cioè? «Galleggiava sull' acqua e pensarono che facesse il morto a galla, invece era morto davvero battendo la testa contro uno spunzone di roccia. Anche quello sembrò un suo ultimo scherzo».

All' inizio lavorasti dunque soprattutto alla radio. «Sì, Radio Bologna, Radio Roma. Lavorai per molte trasmissioni: quella di maggior successo fu un programma nato da un' idea di Silvio Gigli. Si entrava di solito negli ospedali e davanti a un pubblico di malati si portava un po' di spensieratezza. Una volta venne ad assistere il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. Gigli decise che la trasmissione andava fatta al Teatro delle Vittorie con l' Orchestra della Rai schierata al gran completo. Affidò la presentazione a un giovane Corrado. La scaletta prevedeva un pezzo di Wagner. Quando arrivò il momento, Corrado disse: "E ora un gradito brano wagneriano, La Valcacata delle Valchirie". Silenzio. Gigli terrorizzato. Corrado: "Scusate volevo dire: La Valcacata delle Valchirie". L' orchestra cominciò a ridere. Gronchi, in prima fila, girò il capo dall' altra parte. Poi Gigli si precipitò sul palco, afferrò il microfono, scusando l' imperizia di Corrado dovuta all' emozione».

Memorabile. «Ma sai, Corrado sarebbe diventato uno straordinario professionista. Ma tutta la televisione di quel periodo era straordinariamente inventiva. In quel periodo, parlo dei primi anni Cinquanta, facevo anche teatro. Lavorai con le Sorelle Nava. Meravigliose. Lo spettacolo che debuttò al Mediolanum di Milano si chiamava Davanti a lui tre... nava tutta Roma, era una parodia del film di Carmine Gallone. C' era anche Gino Bramieri. Castellano e Pipolo ci videro e ci scritturarono in televisione».

Con Bramieri hai fatto una trasmissione epica, " L' amico del giaguaro". «Oltre a Bramieri e me, c' era la grandissima Marisa Del Frate. I testi di Terzoli e Zapponi. Per tre anni abbiamo lavorato insieme. Non facevamo le imitazioni dei personaggi, ma le parodie. Bramieri, che pesava allora oltre un quintale, faceva la parodia di Edith Piaf, che sì e no arrivava a quaranta chili. Avemmo un successo grandioso. Al punto che cominciarono a offrirci dei film».

E accettaste? «Insorsero complicazioni con Gino, che era sì un comico bravissimo, ma anche complicato. Si era sottoposto a un' operazione all' addome per togliersi una ventina di chili. Non sembrava più lui. La Titanus ci offrì di fare quattro film al posto di Franchi e Ingrassia. Gino disse no e il progetto sfumò».

Fu un no motivato? « Non lo so, a distanza di anni ho dimenticato quella cosa che allora mi fece incazzare. Credo che il suo diniego si legasse a una ripicca verso qualcuno. Penso che i veri comici devono lavorare da soli. L' unico che non ha mai temuto la concorrenza è stato Alberto Sordi».

Comunque tu al cinema hai lavorato tanto. «Senza particolare fortuna».

Però sei stato il protagonista di " Italiani brava gente", il film di Giuseppe De Santis, che tra l' altro tuo figlio Paolo ha restaurato e verrà forse presentato a Venezia. «Undici mesi di lavorazione, gran parte dei quali in Russia. Il primo ciak risale al gennaio del 1962. Ricordo un grande freddo. Lo smarrimento e la sofferenza delle comparse. La storia era quella di una compagnia di soldati italiani in Russia. Visti i rapporti tra Krusciov e Togliatti, il ministero sovietico ci mise a disposizione dei veri militari. Sul set divenni amico di Peter Falk. Nella coproduzione c' era la Warner Bros ed era chiaro che volevano anche degli attori americani. Poi De Santis si accorse che Peter aveva un occhio di vetro e commentò: ce l' hanno mandato rotto, forse non credono in questo film. E in effetti non incassò una lira».

Tu come l' hai presa? « Mah, De Santis alla fine del film mi disse: " Raffaele, tu sei un grande attore, bravissimo nel drammatico, vedrai quante offerte ti arriveranno". Tre mesi in casa senza che il telefono squillasse. Poi ci fu una chiamata in cui mi offrirono tre giorni con Gianni Morandi per In ginocchio da te».

Tu accettasti? « Certo, mandai anche un telegramma ironico a De Santis: tre giorni con Morandi e a te? Quando, anni dopo, mi ha chiamato Sorrentino per una parte ne Le conseguenze dell' amore è stato un modo per rinascere. Mi hanno perfino dato il Nastro d' Argento. Al che, dal palco, io dissi: si vede che non sapevate più a chi darlo! La verità è che i premi non servono a un c... E, infatti, dopo Sorrentino il telefono smise anche allora di suonare». Sei come un fiume carsico. «La mia vita si inabissa e poi riaffiora. Polvere e stelle».

C'è anche la tua storia ai Caraibi. «Altro capitolo. Vi restai per nove lunghi anni».

Fuggivi da cosa? «Alla fine del 1991, i medici mi annunciarono che non mi restava molto da vivere. Decisi di andarmene su una spiaggia al caldo. Scelsi Santo Domingo. Con Leda vendemmo tutto, o quasi, e con nostro figlio Antonio di dieci anni partimmo per l' isola. Dissi a mia moglie: male che vada ti rifarai una vita laggiù. Poi mi accorsi che invece di peggiorare, fisicamente miglioravo».

Ti aveva fatto bene il clima. «Scoprii che avevano sbagliato la diagnosi. Leda tornò in Italia col bambino che doveva frequentare le scuole e io restai a Santo Domingo ancora per alcuni anni».

Come un Robinson qualunque. «Come uno che non stava più capendo che cosa gli accadeva. Aprii perfino un bar ristorante. Quando venne una signora a chiedermi una piña colada, la guardai quasi con raccapriccio. E pensai tra me: che ci faccio io qui. Fu in quel momento che decisi di rientrare in Italia».

Con quale impatto? « Emotivamente ero coinvolto. Ma anche spaventato. Nel nostro Paese se lasci la poltrona - e io prima di partire lavoravo a Striscia la notizia - è dura riconquistarla. Ero uscito dal giro. Nessuno mi chiamava. Forse nessuno sapeva che esistevo. Fu Paolo Sorrentino a propormi, come ti ho detto, il film. Gli devo molto».

Non ti mancava la vita ai Caraibi? «Forse avevo nostalgia del fatto che lì veramente non hai bisogno di nulla. Per il resto mi sembrava di stare più in un incubo che in un sogno. Sono stato un uomo inquieto, contraddittorio, a volte paradossale. Mi sono ritrovato felicemente padre per una seconda volta a novant' anni, quando Paolo mi si è presentato dicendo: "Sono tuo figlio". E l' ho accolto, perché era comunque una parte di me».

Come è stato il rapporto con tuo fratello Mario? «Mi voleva bene. Diceva che per salvarmi la vita lui era caduto dalle scale diventando scemo, lasciando a me anche la sua intelligenza. Era un attore drammatico. Mentre io ero drammatico nella vita e lui non prendeva niente seriamente. Quando scappò di casa, dicendo che avrebbe fatto del cinema, nostro padre maresciallo, convinto che il cinema fosse "donne e cocaina", non volle più vederlo. Ma lui era così, l' istinto lo portò a fare film importanti, come Giulietta degli Spiriti ».

Tu hai conosciuto Fellini? «Incontrai Fellini la prima volta sulla spiaggia di Fregene. Aveva finito da poco di girare Giulietta degli Spiriti. " Come stai Raffaellino? Come sta Marione? Che stai facendo?", mi chiese con la sua inconfondibile vocetta. Dissi che progettavo un film muto. "Guarda che già li fa Antonioni. Ma se tu dovessi fare un film su di me?". Gli risposi che i suoi ultimi film La dolce vita e Otto e ½ erano già film su di lui. " Sì, ma supponi che uno da fuori debba immaginarmi in un film. Cosa racconteresti?"».

E tu? «Gli dissi: vedrei una montagna tutta nera, con te che la risali: un grande cappello nero e una sciarpa bianca. I tuoi segni distintivi. Alle tue spalle ci sono i personaggi di tutti i tuoi film che arrancano e invece di parlare pronunciano numeri a caso. Finalmente sei in cima e dici: "Miei cari discepoli...". Non fai in tempo a terminare la frase che ti si sfragna il primo pomodoro sulla sciarpa. Fellini mi guardò e poi disse: " Bella la salita sulla montagna, ma perché mi fai maltrattare?". "Perché penso sia giusto che i personaggi delle tue storie si ribellino. Sei stato un tiranno con loro". Ci pensò su e poi disse: "Raffaellino, sei una streghetta!". Era il 1966.

L' ultima volta che lo rividi fu all' inizio degli anni Novanta. Eravamo abbastanza vecchi. Lo incontrai in un ufficio dell' Enpals, credo dovesse firmare personalmente qualche modulo per la pensione. Fu stupito. Poi disse che a lungo aveva pensato a quella idea di film. Gli ricordai la promessa di farmi incontrare il vecchio Angelo Rizzoli. E di averlo atteso invano. Ridacchiò: "Raffaellino, Raffaellino, ma quando imparerai che nel cinema si dicono un sacco di balle?".