Libero, 24 febbraio 2018
Edoardo Sanguineti, quel poeta marxista-leninista nemico del popolo e della Storia
Ha un’importanza molto superiore alla sua mole, il piccolo libro dedicato a Edoardo Sanguineti, il poeta dell’avanguardia (Historica, pp 99, euro 12).
L’ha scritto Lanfranco Palazzolo, il quale vi ha versato una sua intervista trasmessa da Radio Radicale con intellettuale genovese e soprattutto marxista (l’ultima realizzata in vita), e l’ha approfondita fino a realizzare una sorta di biografia non diciamo spirituale (il termine avrebbe fatto rizzare i capelli al poeta), ma esistenziale, ideologica, politica. La postfazione di Pino Pisicchio, a sua volta poeta e politico, è interessante perché, oltre a lavorare sulle caratteristiche della produzione artistica di Sanguineti, di lui evoca il «suo essere protagonista, a tutto tondo, di una grande stagione della cultura italiana». Chiuso il libro però, uno si chiede: com’è stato possibile? Com’è potuto accadere che per decenni e decenni in Italia si sia imposta come egemone la cultura e la Weltanschauung di cui Sanguineti è stato il più sincero interprete. E questo è stato il suo merito. L’essere stato, non so se nella sua vita privata, di certo nelle sue espressioni letterarie e nei suoi articoli e interviste, la quint’essenza del cinismo.
LA RUOTA ROSSA
In nome della supremazia della storia sulla vita dell’ individuo, e della classe rispetto al singolo, il povero uomo, specie se povero, è un niente, non merita di fermarsi un momento a guardarlo e commuoversi. Almeno i ricchi infatti sono ritenuti degni di odio, che è comunque un sentimento che manifesta interesse. Invece i sottoproletari del nostro occidente, ma soprattutto i lavoratori e gli studenti che hanno avuto la buona sorte di appartenere a popoli governati dal Partito comunista, i quali non capiscono di essere comunque dalla parte del progresso, non sanno di essere protagonisti oggettivi dello sviluppo delle forze produttive, e osano ribellarsi, sono trattati con disprezzo. Possono aver versato il loro sangue, come i rivoltosi operai di Berlino del 1953, oppure farsi schiacciare dai carri armati in piazza Tienanmen a Pechino (1989), ma restano esseri meschini che desiderano «la Coca-Cola».
Sanguineti non applica la furbizia della dissimulazione. Proprio se ne frega. Come il suo adorato Bertolt Brecht, il quale, quando gli operai desiderosi di libertà gli chiesero soccorso e si fecero ricevere da lui, a teatro, rispose: «Non posso. Sono impegnato nelle prove. Ho altro da fare». Ancora poco prima della morte, nell’intervista con Palazzolo, Sanguineti rivendica la giustezza e l’onestà di quella risposta. Egli la qualifica così: «una risposta molto realistica». Non contano i destini individuali, ma la grande ruota rossa della storia.
Ma non sono i comunisti a cantare «Avanti popolo!»? Certo. Ma sempre per citare un’altra sentenza di Brecht, dipende... «Quando un popolo sbaglia, occorre eleggerne un altro». E chi lo elegge? Le avanguardie, coloro che sanno vedere la realtà reale, oltre il fumo dei pensieri e dei sentimenti, nelle sue cause strutturali, al di là delle effervescenze illusorie. «I pensieri seguono l’essere», come diceva Stalin, apprezzatissimo e citatissiumo da Sanguineti.
Mi domando: com’è stato possibile infatuarsi, da parte della classe intellettuale italiana, di questo tipo di sguardo sul mondo e sul prossimo? Colpisce anche un altro fatto: in nome del progresso della storia e del materialismo storico, Sanguineti è stato un intellettuale organico al berlinguerismo, un vero teorico del compromesso storico. Ma come? Che c’entra Berlinguer? Eccome se c’entra. Ha capito tutto Giorgio Forattini quando ha raffigurato il mitico segretario del Pci che beve una tazza di tè in vestaglia, mentre sotto casa sua passa un corteo di operai in sciopero. Berlinguer come Brecht, per Sanguineti: ha capito dove si sposta l’asse del mondo, e per inghiottire gramscianamente l’avversario di classe, si fa concavo per lui. Per questo, il poeta avanguardista, fondatore del Gruppo 63, e dell’anti-poesia.
CONTRO PASOLINI
Avversario giurato del “poetese”, è stato nemico letterario e politico prima di Pier Paolo Pasolini (reazionario, filofascista) e poi di Leonardo Sciascia (incapace di essere umile «sentinella» del comunismo). Con coerenza, il poeta genovese, allo scioglimento del Partito comunista, si spostò verso Bertinotti, ma a differenza del leader di Rifondazione rivendicò «l’odio di classe», in perfetta e onesta continuità con la sua adesione al marx-leninismo. Ma Bertinotti era troppo tenero per Sanguineti, e alla lunga se ne distacca. Senza rimpianti. L’unica cosa che in fondo rimpiange è il muro di Berlino. E la sua poesia? Non mi sento all’altezza di giudicare il poeta («Chi sono io per giudicare»), ma rileggendone i versi che a me, ignorantissimo, paiono pisciate di un cammello coi calcoli, capisco benissimo perché Sanguineti eresse come nemici Giuseppe Ungaretti e soprattutto Eugenio Montale. E lo ringrazio, perché io amo ancora di più Montale (e Giovanni Testori e Giorgio Caproni e Renzo Barsacchi).