Il Messaggero, 25 febbraio 2018
«La Callas aveva paura del palco. Poi saliva...». Intervista a Franco Zeffirelli
La magia secondo Franco Zeffirelli: «Siamo noi fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni?» Novantacinque anni e pochi giorni, una carriera straordinaria nel cinema, nel teatro, nella lirica. Un Prospero del palcoscenico, capace di far riscoprire Shakespeare, o Charlotte Brontë, agli stessi inglesi. «Spesso sogno e realtà si confondono – dice con un filo di voce – e finiamo col chiederci: stiamo sognando o è realtà? Oppure: è talmente straordinario che ci sembra di sognare...»
Maestro: lei vanta capolavori come Jane Eyre, Amleto, Fratello sole, sorella luna A quale tiene di più?
«Non è facile rispondere. In fondo ho sempre considerato i miei lavori come se fossero dei figli, ragion per cui mi è sempre stato difficile pensare che uno fosse migliore dell’altro. Ho sempre lasciato che il pubblico decidesse al posto mio. Detto questo, debbo molto al mio Romeo e Giulietta, il film che mi ha portato al successo internazionale».
Cosa pensa delle versioni cinematografiche successive del dramma shakespeariano?
«Sono versioni generazionali che possono ottenere anche dei successi. Il mio film a distanza di 50 anni dalla prima uscita rimane un classico. Non spetta a me dirlo, ma credo proprio sia entrato nella storia».
Lei ha esordito con Luchino Visconti. Un ricordo del regista di Morte a Venezia?
«Visconti è stato il mio mentore, il mio maestro. Ho iniziato proprio con lui il mio percorso di scenografo nel Troilo e Cressida, allestito nel Giardino di Boboli. Un progetto enorme e con un cast eccezionale, c’erano tutti gli attori del teatro italiano: Paolo Stoppa, Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Franco Interlenghi, Rina Morelli, Giorgio Albertazzi al suo esordio. Una grande esperienza che ha determinato il mio futuro».
Lei è stato in seguito anche aiuto regista di Francesco Rosi, Antonio Pietrangeli... deve molto al cinema. Ma il suo grande amore è stato la lirica. Che ricordo ha di quella prima volta alla Scala?
«Era il 1953 e fui chiamato per realizzare scene e costumi de L’italiana in Algeri con Giulietta Simionato; il regista Corrado Pavolini mi diede carta bianca. Mi appropriai dei sofisticati meccanismi che la Scala possedeva e misi insieme uno spettacolo vivacissimo, con rapidi cambiamenti di scena e sempre di grande effetto. Le mura di Algeri si sollevavano per rivelare la fortezza e dentro di essa il palazzo del sultano, un raffinato e sorprendente padiglione moresco. Una boccata di aria fresca dopo le pesanti produzioni a cui era abituato il pubblico della Scala».
La Scala quest’anno riproporrà l’Aida nel suo celebre allestimento del 1963.
«L’Aida viene ripresa regolarmente ogni due-tre anni e ha sempre ottenuto molto successo. Mi fa certamente piacere che la allestiscano anche quest’anno, rendendo così omaggio anche alla mia grande collaboratrice Lila De Nobili».
Sul palco e sul set lei ha avuto l’opportunità di lavorare con Maria Callas, Elizabeth Taylor, Laurence Olivier...
«Stiamo parlando di tre grandissimi artisti, con i quali ho costruito non solo un proficuo rapporto di lavoro ma anche di profonda amicizia. Con Maria abbiamo realizzato sei produzioni memorabili, con la Taylor sia La Bisbetica domata che Il giovane Toscanini, e con Olivier, all’Old Vic di Londra, i due spettacoli di Eduardo De Filippo: Sabato, domenica e lunedì e Filumena Marturano».
Ci racconta qualcosa del suo sodalizio con la Callas?
«Maria è stata una grandissima professionista! Dopo ogni prova di regia rimaneva da sola sul palco e riprovava tutti i movimenti e i passaggi musicali per ore ed ore. Aveva paura di affrontare il pubblico: ricordo che nell’attesa di entrare in scena mi stringeva la mano, affondando le sue unghie nella mia carne. Una volta in scena tutti i suoi timori svanivano, lasciando il posto alle sue grandi interpretazioni, per le quali fu definita la Divina».
Ha mai litigato con qualcuno?
«Eccetto alcuni casi difficili, sono sempre riuscito ad avere degli ottimi rapporti con le attrici, attori o cantanti con i quali ho collaborato».
Le opere di Shakespeare sono state un suo cavallo di battaglia. Quale allestimento ricorda con più piacere?
«Naturalmente la produzione di Romeo e Giulietta allestita nel 1960 al teatro dell’Old Vic di Londra con una giovanissima Judi Dench, e con John Stride, che ebbe un enorme successo sia di pubblico che di critica. All’inizio, durante le prove, ricordo che tutti intorno a me erano alquanto scettici. Ma come? Un regista italiano? E con tali idee rivoluzionarie nel trattare un loro classico, che per generazioni era stato rappresentato da attori di grande esperienza e spessore professionale? Durò poco: ben presto mi accettarono. Judi si rivelò straordinaria e conquistammo il cuore di tutti. Ma poi mi lasci dire...»
Cosa?
«Come non ricordare la versione con Annamaria Guarnieri e Giancarlo Giannini? E la grande interpretazione di Giorgio Albertazzi nella mia produzione dell’Amleto? Un attore straordinario che incantava il pubblico con la sua voce e la sua recitazione».
Lei è sempre stato un artista fuori dal coro, cattolico e conservatore in una scena culturale dominata dalla sinistra. Ha incontrato difficoltà?
«In Italia ho sempre avuto dei problemi ma il grande pubblico era dalla mia parte e mi ha dato tante soddisfazioni».
Problemi con la critica?
«Un rapporto spesso difficile. Tanto che lasciai fuori i critici dalla prima de La lupa, con Anna Magnani. Ma parlo di cinquant’anni fa. Ho avuto un ottimo rapporto con Rita Sala, la critica del Messaggero scomparsa di recente. La sua dipartita è stata una grande perdita per tutti noi. Era una donna di ampio respiro culturale con la quale si colloquiava volentieri; lo scambio era sempre di grande livello. La rispettavo molto».
Le piace il cinema italiano di oggi, o lo ritiene peggiorato rispetto al passato? Le piace, per esempio, il cinema di Luca Guadagnino o Paolo Sorrentino?
«Che dire? Mi mancano molto i film di De Sica, Fellini, Visconti, Bertolucci, Pasolini. Per fortuna li posso rivedere quando voglio».
Ha potuto visitare recentemente la Fondazione intitolata a lei: è soddisfatto di questa iniziativa che la celebra nella sua città?
«Ho voluto mettere a disposizione del pubblico tutto il mio percorso artistico, con la speranza che i giovani prendano atto ed imparino a capire l’importanza di come organizzare e preparare un lavoro nei più minimi particolari».
Maurizio Scaparro ritiene che oggi i grandi artisti del teatro abbiano un dovere inderogabile, trasmettere alle nuove generazioni i segreti della parola. Lei è d’accordo?
«Certo. La lettura, le parole, il grande teatro classico sono la speranza per mantenere viva la nostra cultura».
No comment, invece, a proposito delle accuse di molestie (peraltro già smentite il mese scorso) da parte dell’attore americano Johnathon Schaech, riferite alla lavorazione, nel 1993, di Storia di una capinera: parole definite a suo tempo tardive e assolutamente infondate.