la Repubblica, 26 febbraio 2018
Torna Amélie ed è cattivissima
Marie amava il suo nome. Meno banale di quanto si pensasse, lo trovava perfetto.
Dire di chiamarsi Marie faceva sempre una certa impressione. “Marie” ripetevano gli altri, incantati.
Il nome non bastava a spiegare il suo successo. Sapeva di essere bella. Alta e ben proporzionata, il viso illuminato dal chiarore biondo dei capelli, non lasciava certo indifferenti. A Parigi sarebbe stata una tra le tante, ma viveva in una città lontana dalla capitale quanto basta per non doversi piegare alla sudditanza delle periferie. Abitava lì da sempre, la conoscevano tutti. Marie aveva diciannove anni, era arrivato il suo momento.
Una vita grandiosa la aspettava, ne era certa. Studiava da segretaria, cosa che di per sé non era presagio di nulla – bisogna pur studiare qualcosa. Era il 1971.
“Largo ai giovani” si sentiva dire da ogni parte.
Frequentava i coetanei alle varie soirées organizzate in città, non ne mancava nessuna. C’era una festa quasi ogni sera, per chi avesse molte conoscenze.
Dopo un’infanzia quieta e un’adolescenza noiosa, la vita cominciava. “Ora sono io al centro del mondo, è la mia storia che conta, non quella dei miei genitori o di mia sorella”.
La sorella maggiore si era sposata l’estate prima con un bravo ragazzo, aveva già un figlio, Marie si era congratulata pensando: “Finito il divertimento eh, vecchia mia!”. Trovava eccitante attirare gli sguardi di tutti, essere invidiata dalle altre ragazze, ballare fino al mattino, rientrare a casa all’alba, arrivare in ritardo alle lezioni. “Marie, abbiamo fatto di nuovo baldoria, vedo” diceva ogni volta il professore, cercando di fingersi severo. Quelle povere racchie delle sue compagne, sempre in perfetto orario, la guardavano con rabbia. Marie scoppiava in una risata luminosa.
Se le avessero detto che appartenere alla gioventù dorata di una città di provincia non era presagio di nessun avvenire straordinario, non ci avrebbe mai creduto. Non aveva nessuna idea precisa sul suo futuro, sapeva soltanto che sarebbe stato fantastico. Quando si svegliava al mattino sentiva in cuor suo come una potente chiamata a qualcosa di più grande di lei e si lasciava trasportare dall’onda di quell’entusiasmo. Ogni nuovo giorno prometteva avvenimenti di cui ignorava la natura. Questa sensazione indistinta di un qualcosa sempre sul punto di accadere la mandava in estasi.
Quando le compagne di scuola parlavano del loro futuro, Marie le derideva tra sé: matrimonio, bambini, una casa – ma come potevano accontentarsi? Che immensa stupidaggine inchiodare la speranza alle parole, e a maggior ragione a parole tanto meschine. Marie non dava mai un nome alla sua attesa, ne assaporava giorno dopo giorno il senso di infinito.
Alle feste le piaceva che i ragazzi avessero occhi solo per lei, stava sempre attenta a non dare l’idea di preferirne uno agli altri – che se ne stessero pure tutti lì, pallidi per l’angoscia di non essere scelti. Quale piacere immenso nell’essere cento volte respirata,mille volte desiderata, e mai colta! Ma c’era una gioia ancora più potente: suscitare la gelosia delle altre. Quando Marie vedeva una certa invidia dolorosa negli sguardi delle coetanee, godeva del loro supplizio fino a sentirsi mancare il fiato. Al di là della stessa voluttà, quegli occhi amari posati addosso le dicevano che al centro della storia che adesso si andava raccontando c’era lei, era lei la protagonista, e le altre soffrivano nello scoprirsi comprimarie, invitate al banchetto per raccoglierne le briciole, attrici scritturate in un dramma in cui sarebbero morte per una pallottola vagante, dissanguate dalla ferita di un colpo non destinato a loro.
Il destino avrebbe riservato il suo interesse soltanto a Marie ed era esattamente questa esclusione di terzi a darle un piacere a tal punto supremo. Se qualcuno avesse provato a spiegarle che il contrappasso dell’invidia è l’invidia stessa, e che non esiste sentimento più meschino al mondo, lei avrebbe fatto spallucce. Finché avesse ballato al centro della festa, il suo sorriso così luminoso sarebbe stato un ottimo schermo dietro cui nascondersi.
Il ragazzo più bello della città si chiamava Olivier. Slanciato, bruno come un meridionale, era il figlio del farmacista e ne avrebbe ereditato il mestiere. Gentile, divertente, servizievole, piaceva a tutti e a tutte. Quest’ultimo dettaglio non era sfuggito a Marie. Le bastò fare la sua apparizione e la trappola scattò: Olivier se ne innamorò perdutamente. Marie assaporò con gusto la dimensione pubblica della vittoria. Nello sguardo delle altre ragazze l’invidia dolorosa lasciò il posto all’odio, e il godimento che provò nell’essere guardata in quel modo le fece tremare i polsi.
Olivier mal interpretò la natura di quel fremito e si credette amato.
Turbato, si arrischiò a baciarla.
Marie non distolse il viso, lanciò semplicemente uno sguardo obliquo per assicurarsi di essere l’oggetto di un’invidia profonda.
Quel bacio coincise in lei con il morso supremo del suo demone interiore e non poté trattenere un gemito.
Traduzione di Isabella Mattazzi