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 2018  febbraio 26 Lunedì calendario

Che cosa ti succede quando perdi la vista

Dicono che la morte arrivi come un ladro nella notte. La calamità che mi ha rubato la vista, lo ha fatto mentre dormivo: sono andato a letto vedendo il mondo in un modo; mi sono svegliato vedendolo diverso. È successo circa 4 mesi fa. Sono andato a dormire convinto di avere più o meno il controllo della mia vita.
Mi sono svegliato accorgendomi di quanto fosse ridicola quella convinzione.
Così ho cercato di abituarmi, in mezzo al disorientamento quotidiano, a leggere e digitare con una nebbia spessa e maculata che copriva tutta l’estremità destra del mio campo visivo, che a tratti era inclinato e inservibile. Ho anche lottato per non farmi prendere dalla rabbia e dalla paura che non nasceva tanto da quello che avevo già perso, ma da quello che poteva ancora perdere. Nei prossimi cinque anni, c’è una possibilità più o meno del 20 per cento che quello che è successo al mio occhio destro possa capitare anche al sinistro. Potrei diventare cieco.
Le probabilità sono dalla mia parte. Però la posta in gioco è enorme. E allora? Quella prima mattina quando mi sono seduto al computer per trascrivere una lunga intervista, mi sono tolto ripetutamente gli occhiali per pulirli, convinto che quella vista così distorta fosse dovuta a qualche striatura sulle lenti.
Quando ho abbandonato questa illusione, mi sono lavato gli occhi con l’acqua, ma senza risultato.
Il mattino seguente sono andato dal mio oculista: mi ha detto che avevo bisogno di un neuroftalmologo. Ne ho trovata una, Golnaz Moazami, che dopo tre ore tediose a fissare diagrammi, motivi colorati e macchinari sofisticati, mi ha detto che avevo avuto quasi sicuramente quello che colloquialmente viene chiamato «ictus dell’occhio», in cui il nervo ottico esce devastato da una breve riduzione del flusso sanguigno, e quindi dell’ossigeno. È una cosa che tende a succedere dopo i 50 anni (io ne ho 53).
«Sarei sorpresa» mi ha detto la dottoressa «se il cervello riuscisse ad adeguarsi, lasciando una vista interamente funzionale».
Non c’era nulla che potessi fare (dieta, esercizio fisico, nulla di nulla) per influenzare l’esito. Di sicuro avrei fatto bene a bere tanta acqua, soprattutto prima di andare a letto. Probabilmente avrei dovuto prendere una cardioaspirina tutti i giorni, per favorire il flusso sanguigno.
Principalmente avrei dovuto pregare.
La religione non è la mia specialità. Me la cavo meglio col dramma. Ho chiamato Tom, mio partner da più di nove anni: «Mi ameresti ancora con il bastone e il vizio di andare a sbattere dappertutto?». Ho chiamato tre dei miei migliori amici: «Sono ingrassato, sono vecchio e ora sono un ciclope. Pensate che qualcuno possa essere interessato ai diritti cinematografici?». Ho chiamato mia sorella: «Devi regalarmi il tuo cane. Ma prima devi fargli fare un corso di accompagnatore per ciechi». Il mio telefono ben presto ha esaurito la carica. Il mio corpo ne era pieno.
Una settimana dopo la prima visita, la dottoressa Moazami mi ha confermato che avevo il Naion (neuropatia ottica ischemica anteriore non arteritica, ndr). «È grave, vero?», ho chiesto alla dottoressa. «È grave», mi ha risposto lei, aggiungendo, dopo una pausa imbarazzata: «Mi dispiace. Non ho nulla da offrirle. Ma aspetti, una cosa c’è, in realtà: la sperimentazione clinica di un farmaco». Lo volevo. Così sono diventato una cavia oculistica.
Avete mai guardato le immagini di un nervo ottico? Io ne ho guardate tante che ci potrei riempire il Louvre. E non riesco a capacitarmi di quanto sembri fragile, questo filo sottile, alimentato da una dozzina di minuscoli vasi sanguigni, che lega la parte posteriore dell’occhio al cervello e decide, da solo, se puoi vedere il tramonto del sole o un soufflé che si gonfia.
Per il primo mese dopo la diagnosi, mi sorprendevo a sfregarmi distrattamente gli occhi, come fanno tutti, e il terrore mi attraversava come una scossa elettrica. Ero stato troppo rude? Il mio nervo congestionato era ancora a posto? Le notti erano la parte peggiore. Se l’occhio sinistro mi avesse abbandonato, probabilmente lo avrebbe fatto di notte anche lui. Tutte le mattine la stessa storia: una fitta di apprensione, poi un sospiro di sollievo. Ci vedevo. E ci vedo ancora. L’enigma emotivo è la distanza fra la sopportabilità delle mie circostanze attuali e quello che potrebbe riservarmi il domani. Per il momento i miei handicap sono trascurabili.
Leggo un po’ più lentamente di prima. Gli errori mentre digito si sono moltiplicati. I miei sms sono comici.
Ma nella maggior parte dei casi riesco a compensare con un surplus di determinazione e attenzione, e ho imparato che la miglior risposta alla debolezza è la forza: dimostrare a te stesso che sai ancora fare le cose.
Mi sono ritrovato a compilare l’inventario di tutti gli ostacoli e sconvolgimenti dell’esistenza con cui dovevano fare i conti persone che conoscevo: bambini autistici, genitori con l’Alzheimer, crisi finanziarie, catastrofi lavorative, dipendenze, abusi.
Nonostante il mio disturbo all’occhio, ho una vita fantastica: sicurezza economica, possibilità di avere cure mediche di qualità, una relazione duratura con un uomo il cui viso continuerà a deliziarmi fintanto che sarò in grado di contemplarlo, e dopo sarà la sua voce, adoro anche quella, a farlo. Quello che sto passando è ciò che tutti sopportano quando gli anni si accumulano e il logorio del corpo comincia a farsi evidente.
È l’invecchiamento scritto a grandi lettere. Sto andando a sbattere contro i miei limiti. Il trucco sta nel capire quando focalizzarsi su di essi e quando guardare da un’altra parte.
La terza iniezione è stata l’ultima, e non c’è nessun segnale concreto che la terapia stia salvando il mio nervo devastato, come dovrebbe. Ma è troppo presto per giungere a qualsiasi conclusione: rimarrò sotto osservazione per altri otto mesi.
E cercherò di togliermi dalla testa il Naion, a parte l’acqua e l’aspirina. Le cime non fanno più per me, ma durante una corsa, qualche settimana fa, sono salito sulla cresta di una modesta collina. Non l’avevo cercato, ma di fronte a me c’era un panorama fantastico: il fiume Hudson, grigio, sinuoso, maestoso.
Potevo vedere a monte. Potevo vedere a valle. Che fortuna, che felicità: potevo vedere per miglia e miglia.
Traduzione di Fabio Galimberti