la Repubblica, 24 febbraio 2018
Le regole del film perfetto che inguaiano le major
Da molti anni, quelle delle maggiori case cinematografiche americane sono “stagioni all’inferno”. A Hollywood si producono blockbuster miliardari, film con star costosissime; senza mai la certezza, però, che il pubblico li amerà e li ricoprirà di dollari.
A rischio esaurimento per la continua paura del tracollo finanziario, gli executive continuano ad applicare la stessa ricetta: aumentare i budget e incrociare le dita. E se la salvezza del cinema, invece, venisse da tutt’altra parte? La soluzione sembra averla trovata la A24, una compagnia indipendente che fino a cinque anni fa non esisteva e che ora sta producendo opere tra le più apprezzate e premiate del momento. Basti fare due titoli: Lady Bird e The disaster artist, che troveremo presto tra i candidati alla notte degli Oscar.
L’hanno fondata tre soci poco più che quarantenni – Daniel Katz, David Fenkel e John Hodges – provenienti da esperienze in vari settori del cinema, ma (con l’eccezione del primo, che ha lavorato al Twilight) con precedenti piuttosto anonimi.
L’hanno chiamata A24 in omaggio all’autostrada che collega Roma a Teramo, e che stavano percorrendo quando hanno deciso di aprire la società.
Presentandola, dissero: «Vediamo un’opportunità entusiasmante per i film nel nostro Paese, soprattutto considerando tutti i nuovi modi per indirizzare gli spettatori e i cambiamenti che stanno avvenendo nel mercato».
Nata nel 2012 come sola distribuzione, l’anno dopo la compagnia ha cominciato a realizzare film in proprio: prima una decina, poi una ventina per stagione. Per cominciare alcune produzioni di genere ( Ex- Machina, The witch, Under the skin), concepite come startup e lanciate con tattiche di guerrilla-marketing. Poi subito i primi titoli da Oscar: Room e Moonlight, Oscar 2016 per il miglior film.
Ed ecco realizzato il prodigio: mentre le major stentano a convincere un pubblico sempre meno entusiasta del loro prodotto, la neonata compagnia si porta a casa la massima statuetta grazie a un dramma black con attori sconosciuti. La sorpresa è enorme.
Chi sono mai questi strani tipi che hanno resuscitato il cinema indipendente, proprio mentre i film a medio budget stavano scomparendo dalle sale per traslocare in tv? E che, non bastasse, si sono permessi di aprire i loro uffici a New York e non, come tutti, a Los Angeles («Se vivi a Los Angeles – dice Katz – ogni passo che fai è per avere successo, non per cercare di fare un buon lavoro»).
Quando nessuno se lo aspettava, i ragazzi della A24 hanno rovesciato il tavolo; riuscendo a ripetere quello che aveva fatto la Miramax negli anni 90, ma senza lo stesso atteggiamento dittatoriale sulle decisioni dei registi e sul final-cut (e senza un predatore sessuale per amministratore delegato!).
La strategia di marketing: prendere film a basso costo e trasformarli in eventi imperdibili attraverso nomination e premi, la valorizzazione degli autori, la creazione di nuovi trend per sedurre nuovi spettatori.
Ed ecco il film black ( Moonlight), il film al femminile (Lady Bird), il film fuori da ogni schema ( The disaster artist) e quello “neorealista” ( Un sogno chiamato Florida con Willem Dafoe).
Per certi versi, A24 è l’anti-Hollywood, avendo riempito lo spazio lasciato vuoto da tutto il cinema “indie” di ieri.
Secondo alcuni è diventata la compagnia cinematografica più interessante, creativa e affidabile del XXI secolo.
Certo è che, ormai, essere scelti da A24 rappresenta un attestato di benemerenza per registi e attori. I quali non fanno che dirne un gran bene. Come Sofia Coppola (che fece infuriare Harvey Weinstein quando decise di lavorare con loro): «Mi piacciono molto quei ragazzi.