Corriere della Sera, 26 febbraio 2018
Alfred Brendel: «Non suono più il pianoforte. La musica è nella mia testa»
«Scusi, ma lei è Woody Allen?». «Non che io sappia... Il mio nome è Attila, Attila l’Unno». Scambio di battute surreali quanto vere. Protagonisti una signora forse miope e Alfred Brendel. Avvicinato a New York da una sconosciuta convinta di trovarsi davanti al celebre regista, il pianista austriaco, uno dei più grandi del secondo Novecento, smentisce l’abbaglio e, con l’ironia che gli è propria, svela un’identità impossibile. «Ma l’equivoco mi ha fatto piacere, Woody è il mio regista preferito» sorride Brendel, che a quell’episodio dedicherà poi una delle sue poesie deliziosamente bizzarre. Perché lui, come Zelig di Allen, è un trasformista dell’arte. «Il piano è la passione della vita, ma in parallelo ho coltivato la letteratura e la poesia. E per un po’ anche la pittura. Ma gli esiti non mi convincevano e ho chiesto di distruggere le mie opere».
Brendel da sé esige solo il meglio. Quando nel 2008 si rese conto che l’udito iniziava a scendere, disse addio alla carriera di pianista a 77 anni, età ragguardevole, ma non per i geni della tastiera. «Non ho più suonato. Neanche in casa o per gli amici. Non suono, ma ascolto gli altri».
A volte anche se stesso. Per esempio le registrazioni pubblicate ora da Decca, entrambe inedite e Live in Vienna, con Brendel impegnato nel Concerto per piano e orchestra di Schumann e i Wiener diretti da Rattle (2001), e di Brahms le Variazioni e Fuga su tema di Haendel (1979). «Mi mandano indietro nel tempo, le suonai al mio primo recital, a 17 anni. Quanto al Concerto di Schumann, è un esempio di quanto conti saper leggere la partitura. Nella partitura c’è tutto, lo ripeto sempre ai giovani che vengono a studiare con me. Alcuni davvero di talento, per esempio Filippo Gorini... Peccato che oggi ci sia troppa fretta di arrivare. L’impazienza non mi ha mai riguardato, io ho avuto uno sviluppo lento».
La musica è entrata nella sua vita per caso. «Mio padre gestiva un cinema, da bambino adoravo Chaplin e Keaton. Un piacere che non mi ha mai lasciato, oltre a Allen il mio preferito resta Buñuel. Poi scoprii il piano e la mia idea di fare l’autista andò a monte. O meglio, ho fatto l’autista della musica, l’ho portata in giro per il mondo».
Scansando persino le insidie della guerra. «Le bombe, i discorsi di Hitler, le stelle gialle degli ebrei... A 14 anni mi caricarono con altri ragazzini su un treno per andare a scavare trincee. Faceva così freddo che mi vennero i geloni. Mi hanno rimandato indietro. I geloni mi hanno salvato, ma la guerra mi ha reso scettico per sempre». Sul futuro non nutre grandi speranze. «Sono arrivati altri muri, altri fascismi. Trump, la Brexit... A cosa sono serviti tutti quei morti? Tutto quel dolore?».
Senso e non senso, i poli su cui oscilla la vita. La musica da che parte pende? «Per Kant non aveva senso. Per me invece ne ha molto, mette ordine nel mio disordine. Sono scettico su tutto ma sulla musica sono ottimista. Quella nuova mi appassiona. Ho eseguito il Concerto per piano di Schoenberg 68 volte!». Il 31 marzo riceverà il premio Pordenone Musica per la sua arte e attività didattica. «Non suono più ma continuo a rielaborare la musica nella testa, a sviluppare il rapporto con i compositori. Credo di aver raggiunto le mie capacità musicali più alte. Peccato che ci sia una discrepanza con l’età. Avessi 30 anni di meno...».