La Stampa, 24 febbraio 2018
Intervista a GianMarco Tognazzi: Porto il mio cognome con orgoglio. Oggi Ugo sarebbe contento di me
Certe volte, ma accade molto di rado, succede che i personaggi cerchino gli attori, e non tutto il contrario. In A casa tutti bene di Gabriele Muccino, la circostanza singolare riguarda GianMarco Tognazzi che, nel film campione di incassi, è Riccardino, il cugino spiantato e inconcludente, in procinto di diventare padre, senza lavoro e senza una lira in tasca: «Oggi spero di non somigliargli più, però, da bambino, in una famiglia dove Ugo era il mattatore, sono stato molto Riccardino. Avevo un carattere forte e anche una gran timidezza, cercavo di attirare l’attenzione facendo il pagliaccio, comportandomi con invadenza eccessiva. Adesso, a 50 anni, sono cresciuto, maturato, ma, per diventare Riccardino, ho ripensato a com’ero allora».
Lei, come i suoi fratelli, continua a chiamare suo padre Ugo, e non papà. C’è una ragione?
«C’è una realtà dei fatti, molto semplice. Quelle poche volte che uscivamo con nostro padre, sentivamo sempre gente che gli si rivolgeva chiamandolo Ugo. Poi tornavamo a casa, dicevamo “papà” e lui non rispondeva, provavamo con “Ugo” e lui, subito, “eh?”».
Glielo avranno chiesto un milione di volte, ma la domanda è inevitabile. Quanto ha pesato, nella sua carriera, chiamarsi Tognazzi?
«Non mi ha mai pesato. È una responsabilità e anche un grande orgoglio. Una volta, a chi mi faceva la solita richiesta, ho risposto “a me non pesa per niente, non è che, per caso, pesa agli altri?”. Il fatto è che, nel nostro Paese, l’appellativo “figlio d’arte” continua ad avere un senso negativo, significa persona che ha avuto l’opportunità di fare molte cose senza averne i meriti. È una mania tutta italiana. Penso a Vincent Cassel, in Francia nessuno ha mai collegato il suo successo al fatto che suo padre fosse Jean-Pierre Cassel».
Quando ha capito di voler essere attore?
«È stato grazie a Sanremo. Mi spiego. Alla fine degli Anni 80, dopo aver conosciuto l’insegnante di recitazione Beatrice Bracco, mi è arrivata l’offerta di condurre il Festival. Mi sono ritrovato con le ragazzine sotto casa che aspettavano gli autografi, insomma ho capito che potevo scegliere, da una parte la conduzione tv, dall’altra la recitazione. Mi sono interrogato a fondo. Poi, a teatro, ho fatto Crack, applicando quello che avevo imparato. È stato come rinascere, non rinnego nessuna delle cose fatte prima, ma l’esperienza di Sanremo mi ha fatto capire che cosa volevo fare».
Pensa che il cinema italiano abbia subito riconosciuto il suo talento, oppure lo abbia un po’ sottovalutato?
«Penso di poter dare molto, ma, si sa, la riuscita di un attore dipende dalle occasioni, bisogna trovare i ruoli. Quando facevo le commedie tendevano tutti a vedermi solo in quel contesto, poi Michele Placido mi ha preso per Romanzo criminale e mi hanno incasellato nella categoria del cattivo, inaffidabile... La prima, vera, iniezione di fiducia l’ho avuta proprio da mio padre, quando, otto mesi prima di morire, venne a vedere Crack e alla fine scattò in piedi urlando “bravo” con le lacrime agli occhi. Quello, per me, è stato il lasciapassare».
Forse, anche per lui, non è stato facile. Si è ritrovato tre figli registi, Ricky, Maria Sole e Thomas. E lei attore. Magari avrebbe voluto che qualcuno facesse altro.
«Una volta mi chiese “perché non fai l’agronomo?”. Vivevamo in campagna, magari quel desiderio rifletteva un atteggiamento che io chiamo “ugoistico”, gli piaceva l’idea che qualcuno portasse avanti le sue altre attività. E poi, probabilmente, era spaventato, temeva che tutti noi, scegliendo questo percorso, avremmo dovuto confrontarci con l’assioma del dover essere per forza bravi come lui. Oggi, però, ne sono certo, sarebbe contento».
La vostra è sempre stata una famiglia allargata, guidata da un patriarca carismatico. Che cosa le ha lasciato tutto questo?
«L’abitudine a vivere in una casa con le porte aperte all’amicizia, l’amore per la convivialità, il ricordo di tempi in cui, anche se non c’erano i cellulari, era molto più facile stare insieme. In tutti i modi, giocando a tennis, oppure seduti a tavola a mangiare. E poi il sapere che, da quelle consuetudini, potevano, e possono, nascere progetti straordinari».
Per esempio?
«Una volta Ugo si ritrovò in valigia, a Parigi, un copione che Pupi Avati aveva lasciato a casa nostra non per lui, ma per Paolo Villaggio. Franca (Bettoja, madre di GianMarco, ndr) ce l’aveva messo per sbaglio. Ne nacque La mazurka del barone in cui, alla fine, recitarono insieme. Le storie sono tante, lo sanno tutti che l’idea della Grande abbuffata viene da una frase pronunciata da Marco Ferreri durante una di quelle cene interminabili preparate da mio padre. Disse “basta Ugo, a furia di farci mangiare così ci ammazzerai tutti”».
È riuscito a portare avanti anche un’altra parte dell’eredità paterna, quella dell’amore per la buona cucina e per il buon bere.
«Vivo a Velletri e il 70% del mio fare quotidiano riguarda “La Tognazza”, azienda viti-vinicola gestita insieme con una squadra giovane che, nel mondo austero dei marchi di vino, si è fatta presto un’ottima reputazione, con centomila bottiglie vendute in 4 anni. Siamo molto trasversali, facciamo una comunicazione auto-ironica e dissacrante, questo ci ha premiato».
Adesso che cosa sta facendo?
«Fino a marzo porto in scena Vetri rotti di Arthur Miller, con Elena Sofia Ricci e Maurizio Donadoni, poi devo tornare a occuparmi della “Tognazza”. Il film di Muccino e ora il teatro mi hanno tenuto lontano per un bel po’, non ho nemmeno partecipato alla vendemmia. L’azienda è un impegno importante, diciamo che, in questo, sto diventando un po’ come Ugo. Ripeteva sempre che fare l’attore era il suo hobby, e la cucina il suo lavoro».