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 2018  febbraio 24 Sabato calendario

Turchia. I sermoni e le bandiere di Antiochia spingono le truppe di Erdogan

Le bandiere rosse con la mezzaluna si alternano ai ritratti di Ataturk nell’Uzun Çarsi di Antakya, il vecchio suq di quella che è stata una delle più gloriose città mediorientali. Antakya, cioè Antiochia, è oggi la retrovia dell’ultima battaglia nazionalista turca, contro i curdi dello Ypg, contro le truppe di Bashar al-Assad, ad Afrin e presto forse anche a Idlib. I vessilli nazionali sono appesi alle facciate di tutti i palazzi e la parola d’ordine è «spazzare via i terroristi». È il tema dei sermoni del venerdì che diffondono gli altoparlanti delle vecchie, piccole moschee, quasi invisibili, immerse nei vicoli della città vecchia. Ed è il tema dei luoghi di ritrovo, come il Sultan Safrose, all’ingresso del mercato.
«Gli europei non capiscono che cosa voglia dire vivere con i terroristi alle porte», spiega con la massima convinzione il manager Mustafa Egi, che ha studiato anche in Inghilterra: «Non abbiamo altra scelta. Dobbiamo andare avanti anche se tutto il mondo ci è contro, i russi, gli americani. Ma il confine va messo al sicuro e i terroristi eliminati. Qualsiasi nazione civile lo farebbe». La battaglia, aggiunge con un sorriso sornione, «comunque finirà presto, molto presto». Il motivo è una «nuova strategia» che l’esercito turco metterà in atto. «I curdi in realtà non vogliono combattere – aggiunge Mehmet, proprietario di un negozio di abbigliamento -: hanno chiesto aiuto a tutti, fra un po’ lo chiederanno anche a Marte. Appena i nostri arriveranno alle porte di Afrin scapperanno».
La discesa
Il governo turco è convinto che la fase più difficile dell’offensiva stia per terminare. Dopo ci sarà «la discesa fino». Il concetto viene fatto sgocciolare dai media in infiniti dibattiti e programmi di approfondimento. Ma al di là della propaganda l’attacco contro «i terroristi», cioè i curdi dello Ypg, ha cementato il sentimento nazionalista, scosso dalle purghe seguite al fallito golpe del 15 luglio 2016. Sia la pancia neottomana che sostiene il presidente Recep Tayyip Erdogan che i vecchi kemalisti sono convinti della legittimità dell’attacco. La Turchia, minoranze a parte, marcia compatta.
Dopo 35 giorni però bisogna accelerare. Ieri mattina un’ondata di raid terrificanti, con esplosioni che hanno fatto tremare i vetri fino a Reyhanli, sulla frontiera fra Turchia e Siria, hanno investito il villaggio di Blasfore, sulla strada che porta a Jinderes e poi ad Afrin. Il villaggio è stato poi preso dalle truppe speciali turche e dai miliziani arabi di Jaysh al-Khor. Per tirare su il morale agli alleati arabi, che mostrano segni di stanchezza, sono circolate sugli account simpatizzanti le foto di una base segreta, sulla frontiera, con centinaia di militari genuflessi in preghiera, pronti a essere inviati al fronte.
E non c’è soltanto Afrin nel mirino, presto la presenza militare turca si farà sentire anche a Idlib. Le voci al suq sono confermate da fonti sul terreno vicine ai ribelli. I commando sono arrivati in varie località lungo l’autostrada Aleppo-Damasco, nella zona di Idlib, come Marraat al-Numan: «Hanno ispezionato una base, depositi, si preparano a costituire avamposti lungo tutta l’autostrada e attorno a Idlib, fino a Khan Sheikhoun». Ankara vuol penetrare in profondità «lungo tutta la frontiera della Siria nord-occidentale» ed è pronta alla scontro diretto con le truppe di Bashar al-Assad. Ieri l’artiglieria ha colpito anche Nabal e Al-Zahraa, città arabe da dove sono partite le milizie filo-governative a sostegno dei curdi, e «incenerito» un convoglio di «30-40 mezzi».
Il test di Putin
Pare che lo spazio aereo siriano, controllato dai russi, sia ancora aperto alle incursioni turche. Ma anche su questo fronte le notizie indicano una escalation. Ieri sono stati fotografati nella base di Hmeimim gli aerei «invisibili» russi Su-57, gli equivalenti degli F-22 americani. L’arma più avanzata in mano a Vladimir Putin, anche se prodotta in pochissimi esemplari. Forse saranno «testati» in Siria nei raid contro i ribelli. O forse servono da avvertimento alla Turchia. Che però marcia spedita, «anche contro tutto il mondo». A metà giornata le tv riprendono il discorso di Erdogan dalla capitale. Il presidente fa il punto della situazione, conferma che «l’operazione proseguirà con una nuova strategia dopo che il centro di Afrin sarà circondato e i terroristi saranno tagliati fuori». La cresta delle montagne attorno al cantone è stata superata e presto comincerà la discesa, «finora 415 chilometri quadrati di territorio sono stati conquistati e 1.873 terroristi neutralizzati». Un bollettino di guerra. Sugli schermi scorrono le immagini di soldati in marcia, perfettamente allineati, colonne di blindati.
La città di San Pietro
Nella periferia verso il Monte Silpius, la catena ripidissima che abbraccia e protegge Antiochia come un muro, le stradine della città vecchia diventano sempre più miserabili. Dall’altro lato della montagna c’è la Siria e questo era un pezzo di Siria, luogo di pellegrinaggi cristiani perché nelle grotte che si affacciano sulla città San Paolo e San Pietro si incontrarono e decisero i destini della Chiesa. Qualche anziano parla ancora arabo ed è felice di dare indicazioni per l’antichissima chiesa rupestre, scavata nella parete rocciosa. La leggenda vuole che un tunnel la colleghi con l’altro lato della montagna, oltre il confine. Turchia e Siria sembrano non potersi mai separare, neanche nella guerra.