La Stampa, 25 febbraio 2018
Papa Francesco riforma lo Ior per chiudere la stagione dei sospetti
Per lo Ior è tempo di bilanci, di assestamenti interni. E di riforme destinate a segnare il futuro della banca vaticana che non gode di ottima reputazione a causa degli scandali dei tempi passati e recenti: basti pensare alla condanna per cattiva gestione subita nelle scorse settimane dall’ex direttore Paolo Cipriani e dal suo vice Massimo Tulli, o all’inchiesta vaticana che vede indagato per peculato l’ex presidente Angelo Caloia.
La prima novità in arrivo riguarda le riforme dello statuto, predisposte dal consiglio di sovrintendenza (il board laico) e approvate dalla commissione di cardinalizia e dal Papa. Conterranno adeguamenti alla legislazione vaticana vigente, ma non solo. Scompare, ad esempio, il collegio dei tre revisori, organismo istituito con lo statuto del 1990. La motivazione offerta dal board ai cardinali della commissione di vigilanza è stata questa: nel sistema bancario internazionale le figure dei revisori interni non esistono. In effetti fin dalla metà degli Anni 90, pur avendo appena introdotto i revisori, lo Ior era ricorso anche a un audit esterno, affidando la verifica sui bilanci a Pricewaterhouse Coopers e poi a Deloitte & Touche.
Non è invece passata la proposta di istituire un consiglio di consultazione con esperti esterni che aiutassero i cardinali a districarsi tra bilanci e numeri. Mentre esce più forte la figura del direttore generale Gian Franco Mammì, che gode della totale fiducia di Papa Francesco e dovrebbe irrobustire ulteriormente la squadra dei collaboratori dopo l’arrivo nell’ultimo mese del nuovo responsabile dell’Asset managment che si occupa degli investimenti, e del nuovo responsabile dei rapporti con la clientela, Luca Saletti.
È atteso il bilancio 2017: anche questa volta sarà di segno positivo – un anno fa l’utile fu di 36 milioni – grazie al buon andamento degli investimenti e al taglio delle spese. Ma al tempo stesso si registrerà un lieve calo delle risorse in gestione (erano 5,7 miliardi di euro nel 2016): lo Ior paga infatti il prezzo di non essere più una banca off-shore, oltre che l’essere una realtà piccola, che non concede mutui né prestiti e deve reggere la concorrenza degli altri istituti con le loro numerose filiali, l’homebanking e i circuiti bancomat che permettono di prelevare ovunque. La trasparenza e l’adesione agli standard internazionali, iniziata da Benedetto XVI che chiamò alla presidenza Ettore Gotti Tedeschi, e continuata con Francesco, ha portato alla revisione dei conti Ior e alla chiusura di circa cinquemila di questi. Non tutti per attività sospette, ma perché «dormienti» o perché i titolari non avevano più diritto di essere correntisti. Si è deciso di puntare sulla clientela originaria dell’Istituto, cioè gli ordini religiosi e le diocesi. L’accordo fiscale siglato nell’aprile 2015 con l’Italia, che ha definitivamente sepolto i vantaggi dell’off-shore, è stato tra le ragioni che ha portato all’uscita di alcuni clienti. «Nel caso degli ordini religiosi, per qualcuno ha giocato anche il fatto di non volere che in Vaticano, con un Papa così attento alla gestione del denaro, si sappia quanti soldi hanno», racconta alla Stampa un osservatore di area tedesca. L’anno scorso, a compensare in parte le uscite, è arrivata la decisione di una diocesi italiana che ha trasferito una consistente parte dei fondi da lei amministrati nella banca vaticana proprio per sostenere il processo di trasparenza.
Com’è noto, lo Ior è stato a rischio di chiusura all’inizio del pontificato di Francesco. Poi si è deciso di mantenerlo. Nel luglio 2014, contestualmente all’arrivo del nuovo presidente Jean-Baptiste de Franssu e del nuovo board, il Prefetto per l’Economia, cardinale George Pell, aveva progettato di utilizzare i depositi dell’istituto sulle piazze internazionali per massimizzare i profitti, facendo nascere una «Sicav» – Società d’investimento a capitale variabile – in Lussemburgo. Ma Bergoglio ha deciso di bocciare l’operazione, preferendo che la banca riscoprisse sua vocazione propria di supporto delle opere di religione.
La missione dell’Istituto appare oggi definita, e il presidente collabora bene con il direttore generale Mammì. Quest’ultimo, grazie al rapporto di fiducia con Francesco, ha di fatto accorciato la catena di comando di uno Ior sempre più «banca del Papa». Eppure negli ultimi mesi non sono mancati colpi di scena. Alcuni legati a normali attività di gestione, come l’allontanamento, lo scorso ottobre, di un impiegato che non si comportava in modo adeguato. Altri più clamorosi, come l’improvviso licenziamento nel novembre 2017 di Giulio Mattietti, il direttore «aggiunto» che affiancava Mammì, scortato ai confini del Vaticano con l’interdizione a rimettervi piede. Una rimozione decisa dall’autorità superiore, le cui reali motivazioni sono rimaste ignote anche ai cardinali della commissione di vigilanza. In gennaio Santo Mirabelli, dopo soli dodici mesi di servizio come responsabile del dipartimento che si occupa di sicurezza informatica, ha lasciato l’incarico ritornando alla precedente occupazione presso il ministero dell’Interno italiano. La sua – assicurano Oltretevere – è stata una rinuncia volontaria per motivi squisitamente personali. Infine pochi giorni fa sono state annunciate le dimissioni dal board di Mary Ann Glendon, prima donna con un incarico di vertice nell’Istituto, già ambasciatrice degli Usa presso la Santa Sede. Secondo alcune fonti non sarebbe stata in sintonia con le ultime decisioni prese, in particolare nella gestione del caso Mattietti, e avrebbe preferito ritirarsi. Con le dimissioni della Glendon s’indebolisce quell’«asse americano» un tempo forte nello Ior. Anche se in realtà, dietro ai sussulti più recenti che hanno attraversato l’Istituto, non sembrano esserci questa volta gravi scandali finanziari, né scontri tra vecchie e nuove fazioni, e neppure lotte tra onesti fautori della trasparenza e oscuri nostalgici dell’off-shore. È più probabile che si tratti invece di assestamenti di potere interno e di incompatibilità caratteriali.
Nonostante le difficoltà, segnate anche da due lettere anonime circolate internamente contro l’attuale direttore dello Ior, il messaggio che esce dal Torrione Nicolò V, storica sede dell’Istituto, è positivo: il board, si legge in una nota inviata alla Stampa «esprime la propria soddisfazione per i progressi compiuti. Gli ultimi mesi sono stati testimoni di un’accelerazione nel processo di trasformazione e di diversi risultati importanti ottenuti sotto la guida di un gruppo dirigente che continua ad essere rafforzato. I cambiamenti non sono mai facili e richiedono tempo, ma l’obiettivo finale rimane quello di assicurare che l’Istituto prosegua nel cammino intrapreso per conformarsi ai migliori standard internazionali, soddisfare le aspettative dei clienti nonostante le difficoltà del contesto finanziario e garantire elevati standard etici che giustamente ci si aspetta da un istituto quale lo Ior».