La Stampa, 25 febbraio 2018
Cardiff, la fine della regina del carbone tra miseria, banche del cibo e sussidi
I perdenti della Brexit viaggiano sul convoglio che ogni giorno attraversa su e giù il Galles meridionale. Il 46enne Peter lo prende alle 6,30 del mattino per andare a friggere patate in un fast food di Cardiff e la sera fa il percorso inverso, stesso buio, stesse file di tetti grigi interrotte qua e là dalla statua di un minatore, stessi boschi fangosi arrampicati fino alla stazione di Merthyr Tydfil che non funzionerebbe a pieno ritmo senza quell’Ue a cui nel 2016 Peter e gli altri hanno detto no.
È tra le valli dell’ascesa e del declino della rivoluzione industriale che il gran rifiuto britannico assume tonalità plumbee: con il 23% della popolazione in condizione di povertà, la spesa pubblica destinata a un ennesimo taglio del 7% entro il 2019, il 14% dei genitori impossibilitati a comprare un cappotto per l’inverno ai figli e il 30% dipendenti dai sussidi, questo spicchio di Regno Unito figura tra le regioni più depresse d’Europa, un buco nero dove i 250 milioni di sterline versati ogni anno da Bruxelles come fondi strutturali hanno fatto la differenza. O almeno, avrebbero dovuto farla. Perché invece qui, in barba a qualsiasi previsione, 6 abitanti su 10 hanno votato «leave».
«Non so se ho fatto bene o male ma qualcosa dovevo fare, quando mio padre era in fabbrica mangiavamo carne due volte alla settimana mentre adesso i salari sono sempre più bassi e bastano appena per l’affitto, gli stranieri vengono ad approfittare degli ospedali gratis e i miei ragazzi si sono dovuti trasferire a Manchester», ragiona Peter approcciando la banchina e puntando a una birra nella centrale High street, un negozio di beneficenza dopo l’altro, Croce Rossa, Esercito della Salvezza, Cancer Care. In realtà, nell’ex regno del carbone che insidiava a Cardiff il ruolo di capitale e attraeva manodopera globale come una Chicago ante litteram, gli immigrati attuali, polacchi, bulgari, ungheresi, non arrivano al 3% e lavorano quasi tutti nel nuovo impianto di lavorazione della carne, un «ufficio» poco ambito dai nativi. Ma tant’è.
«Il Galles si è pronunciato per il leave nonostante ricevesse dall’Ue assai più di quanto versasse e, se nella Cardiff che ha assorbito tutti gli sforzi della riconversione industriale hanno prevalso i “remain”, la differenza è venuta proprio dalle aree più povere, quelle che già destinano un quinto del budget a tamponare le diseguaglianze e pagheranno la quota più alta di un conto stimato intorno allo 0,5% del Pil», nota il politologo dell’università di Cardiff Rod Hick. È un cortocircuito semantico prima ancora che politico. Lungo i binari del tempo perduto, dove il Novecento ha lasciato un’aspettativa di vita 7 anni più bassa che in Inghilterra e il pediatra Paul Davis del David’s Hospital di Cardiff studia il rapporto tra sottosviluppo famigliare e autismo infantile, il bisogno di un capro espiatorio è lievitato con il divario tra occupazione e benessere: mentre la prima cresceva con il moltiplicarsi di contratti low cost l’altro diminuiva, riversando sugli sportelli delle almeno 157 banche del cibo gallesi famiglie indigenti ancorché lavoratrici, infermieri, insegnanti con capo chino per la vergogna, chiunque non avesse diritto all’assegno sociale ma arrivasse a fine mese con il frigo vuoto.
«Siamo passati dai fasti del ferro, del carbone e dell’acciaio al crollo dell’occupazione, della ricerca e degli investimenti, è come se dopo una sbronza ci fossimo risvegliati 30 volte più poveri di Londra e fuori tempo massimo per far crescere una borghesia imprenditoriale» spiega Adam Price, leader del partito di centro-sinistra e nazionalista gallese Plaid Cymru che da alcuni anni incalza lo storico primato laburista nelle valli dove l’Ukip è servito da megafono contro l’Ue per tornare insignificante all’indomani del referendum. Price, figlio di un minatore, indica sulla mappa Cynon, Rhymney, Ebbw, comunità leggendarie che, come Merthyr, saldavano il sudore alla politica e donarono molti figli alle brigate anti-franchiste. Nomi che oggi, ad eccezione della ex miniera Rhondda trasformata in museo di grido, non compaiono neppure nell’indice delle guide turistiche: «Il no a Bruxelles è il rifiuto di una popolazione che si sente abbandonata dalla politica nazionale “City-centrica” e che ha colpito a caso, male. Ricordo gli scioperi degli Anni 80 quando l’Europa ci mandava pasti caldi, Bruxelles si è spesa per noi molto più di Westminster, ma sono storie che qui non racconta nessuno».
Non si trova un cartello che menzioni l’Ue lungo la ferrovia, che è poi l’unica arteria delle valli altrimenti punteggiate di grandi e isolati villaggi. Non se ne trovano a Port Talbot, ultimo avamposto dell’acciaio, dove il consigliere di Plaid Cymru Nigel Hunt mostra quartieri bordeline in cui si sovrappongono il 4% della popolazione cittadina, il 10% del business, il 20% dei comportamenti anti-sociali e Westminster vorrebbe costruire una gigantesca prigione. E non se ne trovano a Merthyr Tydfil, sotto l’orologio della stazione, all’ingresso di antichi pub come The New Crown che oggi serve il bacalau dei nuovi gestori portoghesi e ospita concerti live frequentati da over 40 perché i giovani se ne vanno, s’iscrivono all’università e non tornano più.
«C’è stata una fase in cui la disoccupazione sfiorava il 25%, ora va molto meglio, siamo al 7,3%, ma la stima comprende i nuovi contratti “a zero ore”, quelli per cui firmando ti metti a disposizione e aspetti: sulla carta si lavora ma già vediamo allungarsi la fila davanti alle banche del cibo» nota Lesley Hodgson dell’associazione Focal Point, un raccordo tra il territorio e quelli che lei non chiama stranieri perché «sono parte della vita quotidiana», dice gustando il cappuccino ordinato da «Brachi», cognome italiano degli Anni 50 diventato sinonimo di caffè.
Per le strade, a dire il vero, lo spaesamento è palpabile, un senso diffuso di essere altrove, contare poco, faticare molto. «Non abbiamo saputo spiegare alla gente che le infrastrutture da cui dipendono i collegamenti tra le valli, a partire dalla preziosa superstrada A465, sono state pagate dall’Europa» concede Maureen Howells, referente per la povertà e le diseguaglianze di cinque ministeri. Il governo locale, una coalizione di laburisti e liberaldemocratici, ha messo su una task force per le valli, sperando che non sia troppo tardi. Un po’ in effetti, lo è. Dal suo ufficio ai piani alti dell’Assemblea nazionale il leader dell’Ukip gallese Neil Hamilton sa di non poter sedurre una terra di sindacalisti purosangue, ma aspetta sul ciglio del fiume i petali della rosa rossa, passata dall’80% del 1974 al 33% attuale. «Una volta liberi dalla burocrazia di Bruxelles faremo del Galles un paradiso fiscale dove i ricchi vengano a investire e non ci sia più bisogno di assegni sociali» fantastica. Le prospettive politiche del partito di Farage non sembrano oggi più consistenti di quelle del suo fondatore, ma la Brexit è un’eredità ingombrante.
Romba un aereo, gli scolari con gli zaini sulle spalle ridono naso all’insù: il cielo sopra Merthyr, protagonista di tanti versi di Dylan Thomas, è lo stesso, ma Londra è lontanissima.
3 – Fine