il Fatto Quotidiano, 26 febbraio 2018
Londra 1978, le chitarre unite contro il razzismo
Accadeva quarant’anni fa, in Gran Bretagna. Ma potrebbe – e dovrebbe – accadere oggi, in Italia. Nella primavera del 1978, in un Regno tutt’altro che unito, percorso com’era da pulsioni razziste e con le strade delle grandi città incendiate dalla violenza nazionalista, la campagna Rock Against Racism toccò il culmine della propria parabola. Decine di musicisti, famosi e meno famosi, ma quasi tutti appartenenti a quella che allora veniva chiamata “new wave”, l’ondata di energia e di idee fresche succedutasi allo tsunami punk del ’76-’77, si riunivano in grandi concerti contro un’altra “wave” montante: quella dell’estrema destra.
Band bianche, nere e miste, rock e reggae, maschili e femminili, tutte assieme per riaffermare un concetto semplice ma sul quale nessuno intendeva derogare: il fascismo non passerà. C’erano i Clash e gli Steel Pulse, gli X-Ray Spex di Poly Styrene e i Generation X di un allora giovanissimo Billy Idol, i Ruts e i nord-irlandesi Stiff Little Fingers, Elvis Costello e gli Aswad, Tom Robinson e Graham Parker. E tanti altri. Forse non tutti con una coscienza politica così radicata, alcuni anzi con un atteggiamento militante talmente naif da risultare imbarazzante – basti ricordare la maglietta sfoggiata da Joe Strummer con la scritta “Brigade (sic) Rosse” – ma la sincerità di intenti dei musicisti coinvolti non era comunque in discussione.
Al Victoria Park, nell’East End londinese, si radunarono in centomila per ascoltarli, al termine di una gigantesca marcia per quelle stesse strade spazzate in quei mesi dalle aggressioni contro gli immigrati. Il bersaglio di Rock Against Racism aveva del resto un nome ben preciso. Si chiamava National Front, organizzazione neo-fascista dai tratti profondamente razzisti e populisti che in quegli anni parlava chiaramente di “tornare a un’Inghilterra bianca” e identificava nella popolazione originaria delle Indie Occidentali o del Pakistan la causa di tutti i mali che affliggevano l’economia britannica e le classi svantaggiate (ricorda qualcosa?). Alle origini del movimento, tuttavia, c’erano state anche le prese di posizione esplicitamente xenofobe e para-fasciste di un paio di celebrità tra le più riverite del music-biz inglese.
Eric Clapton durante un concerto si era lanciato in un attacco contro gli stranieri, sostenendo che l’Inghilterra era sovrappopolata ed era ormai diventata una colonia di neri, mentre David Bowie aveva fatto scandalo con frasi deliranti sulla necessità che arrivasse un nuovo Hitler – “la prima rockstar della storia” – a sistemare le cose nel paese. Va detto che entrambi gli artisti per vari motivi non erano all’epoca in condizioni psicologiche normali, e che nel corso degli anni hanno più volte chiesto scusa per il loro comportamento, ma certo quelle affermazioni improvvide (per usare un eufemismo) fecero da detonatore per un movimento musicale anti-razzista e anti-fascista che contribuì, nel suo piccolo, ad arginare derive pericolose soprattutto nelle generazioni più giovani.
Gettando allo stesso tempo le fondamenta per una coscienza critica che avrebbe accompagnato la musica inglese, anche nelle sue diramazioni più pop, nel lungo inverno thatcheriano che sarebbe seguito. Una coscienza che se oggi è vacante nella stessa Inghilterra post-Brexit, da noi è totalmente assente. In un periodo in cui fascismo e anti-fascismo sono incredibilmente tornati a dettare l’agenda politica e i palinsesti dei talk-show, in un Paese nel quale c’è chi impugna una pistola e si mette a sparare ai primi africani che incontra per strada senza che si abbia il coraggio di chiamare fatti del genere con il loro nome – e cioè raid terroristici di marca fascista – e nel quale organizzazioni politiche che si richiamano al Ventennio partecipano alle elezioni, il mondo musicale pare vivere su un altro pianeta. Al di là delle occasionali dichiarazioni di singoli artisti, in genere affidate a tweet o post su Facebook, ciò che manca è proprio una dimensione politica collettiva nella quale i musicisti italiani sappiano riconoscersi e agire concretamente. L’universo pop italiano è come inerte e chiuso in una dimensione parallela, atomizzato in scene che non si parlano tra di loro – l’indie, il mainstream, il rap, l’elettronica, la canzonetta sanremese, le vecchie glorie – e incapace di far valere quel poco o tanto di ascendente che la musica può ancora esercitare su giovani e giovanissimi.
Cantautori alternativi (a cosa?) tutti concentrati sul loro ombelico spirituale da trentenni precari, idoli della trap con l’ossessione dei soldi, rocker ingrigiti e insopportabilmente retorici come la musica che suonano, il privato e l’ironia (quella maledetta ironia da comunicazione social diventata un segno dei tempi) che prevalgono sul racconto della realtà. Possono sembrare discorsi da Anni 70, ma il problema in effetti è proprio questo: siamo di nuovo negli Anni 70.
Con tutti i veleni di quel periodo, ma senza gli antidoti. Rock Against Racism, con tutte le contraddizioni del caso, provò a essere un rimedio contro una malattia che oggi si sta ripresentando con gli stessi sintomi di allora. È utopia sperare in un Rock Against Racism nell’Italia del 2018? Non fosse che per non doversi rassegnare all’idea che tra rock e razzismo sia morto solo il primo.