Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  febbraio 26 Lunedì calendario

La ribelle fotogenica che divide i palestinesi. Ha schiaffeggiato un soldato israeliano, ma è un’eroina quasi solo in Occidente. Tra i giovani arabi, traditi anche dalla loro Autorità, prevale la disillusione

Per gli attivisti internazionali, mobilitati in tutta Europa, è la nuova Mandela. La nuova Malala. Per gli israeliani, invece, che da un mese ormai non parlano d’altro, è un’attrice. La Knesset ha commissionato un’indagine per capire se davvero Ahed Tamimi, 17 anni, capelli biondi e occhi chiari, e nessun hijab, sia palestinese. O non sia forse pagata, insieme a tutta la sua famiglia, per animare le manifestazioni del venerdì di Nabi Saleh, un agglomerato di case vicino Ramallah che dal 2010 si oppone all’espansione dell’insediamento di Halamish; dei suoi 600 abitanti, 350 sono stati feriti. E 50, ora, inclusa la madre di Ahed, hanno disabilità permanenti.
Il 18 dicembre Mohammed Tamimi, 14 anni, finisce in coma per un proiettile alla testa. Si salverà, ma con mezzo cranio in meno. Un’ora dopo, sua cugina Ahed nota un soldato all’ingresso di casa. Gli dice di andare via, comincia a strattonarlo: e gli tira uno schiaffo. Il video diventa virale. E il 19 dicembre, in piena notte, l’esercito torna ad arrestarla.
Da allora, Ahed è in carcere per assalto alle forze di sicurezza. Solo un paio di settimane prima, Trump aveva deciso di trasferire a Gerusalemme l’ambasciata Usa in Israele. E si erano avuti scontri e morti un po’ ovunque. Ma alla fine, l’Intifada che tanti si attendevano non è mai iniziata. Ma se per gli attivisti internazionali è un’eroina e per gli israeliani “una che andrebbe punita al buio, senza testimoni né telecamere”, come ha scritto il noto editorialista Ben Caspit, chi è Ahed Tamimi per i palestinesi?
 
Ehab Ewedat, 23 anni, Hebron
“Ma che senso ha uno schiaffo? Cosa cambia? I miei, se mi avessero visto discutere con un soldato, si sarebbero precipitati a tirarmi via: non sarebbero certo stati lì a filmare come la madre di Ahed. Genitori così istigano i figli. E consapevolmente o meno, finiscono per usarli e strumentalizzarli, privandoli del diritto di essere bambini. Esattamente quello che fa Israele. Vivo a Hebron, che non è molto diversa da Nabi Saleh, perché è l’unica città in cui i coloni non vivono in insediamenti, ma in mezzo a noi, casa per casa: e quindi gli scontri sono quotidiani. Gli attivisti sono molti, fondamentali, certo. Ma diciamo la verità: sono anche uno contro l’altro, tutti in competizione tra caccia a fama e finanziamenti. Da quando sono arrivati gli internazionali, è diventato tutto una specie di sceneggiata. Di attrazione turistica. Sembra che la resistenza consista nello sfidare i soldati ai checkpoint. Nell’intossicarsi un po’ di gas. Ma è tutto molto più complesso. Perché non siamo contrapposti: siamo interconnessi economicamente e amministrativamente. E il mondo invece pretende di congelarci nell’immagine del ragazzo con la kefiah e la fionda, e da noi si aspetta solo il sacrificio in nome della terra, speculare a quello dei coloni, che per stare inchiodati alla terra, abitano in luoghi assurdi, colline di sassi in cui a stento sopravvivono le capre. Resistere è restare qui, ma vivendo una vita vera. E invece adesso Ahed sarà rilasciata, e inizierà a girare per conferenze in tutto il mondo”.
 
Mariam Barghouti, 24 anni, Ramallah
“Una nuova Intifada? L’unica vera battaglia dei palestinesi, in questi mesi, è stata per il 3G. Gli scontri sono quotidiani, sì. Ma ormai tirare pietre non è che uno sfogo. Non abbiamo più nè leadership nè strategia. Fatah e Hamas sono reti clientelari al servizio degli israeliani. Oslo ha cambiato tutto. L’idea era rinviare la discussione sulle questioni più difficili, come gli insediamenti, o i rifugiati, e iniziare intanto a costruire questo famoso stato palestinese: nella convinzione che lo sviluppo economico avrebbe allentato le tensioni, e semplificato i negoziati. Ma non c’è sviluppo possibile se non controlli le frontiere, le importazioni e le esportazioni. Né le infrastrutture, se non controlli risorse come l’acqua e persino le tasse vengono riscosse da Israele. La ricchezza che vedi è un’illusione. Qui tutto è fondato sui debiti, prestiti e mutui. Se lavori trenta ore al giorno, non hai tempo per un’Intifada, il settore privato è minimo, le sole opportunità di lavoro sono Israele o la pubblica amministrazione. E, in entrambi i casi, sei prima sottoposto a uno screening di sicurezza. Prima di assumerti, si assicurano che tu non sia politicamente impegnato. Però, onestamente, con tutte le nostre responsabilità, è anche vero che tra gli attori di questo conflitto, siamo quelli nella posizione più difficile. State sempre a chiederci perché non iniziamo una nuova intifada. E la mia risposta è: Oslo e tutto quello che ha generato. Ma voi eravate i garanti di Oslo. E allora? Voi che avete molta più forza, molto più potere, molte più opzioni di noi, perché non tirate uno schiaffo a Israele?”.
 
Khadija Khweis, 40 anni, Gerusalemme
“Io vivo a Gerusalemme, e il mio obiettivo è non essere arrestata. È quello che Israele cerca: un pretesto per cacciarmi da qui. Ora si parla tanto dello stato unico. Con tutti questi insediamenti, si dice, non c’è più spazio per due Stati, il processo di Oslo ormai è fallito. Ma Gerusalemme è il laboratorio di questo famoso stato unico da cui siete tanto affascinati, per gli israeliani è la città che più di ogni altra è indivisibile. E il risultato è che mi è vietato anche solo avvicinarmi alla moschea di al-Aqsa. Gerusalemme è come Hebron. La nostra vita è segnata da mille incidenti, mille logoranti soprusi quotidiani che non finiscono sulla stampa internazionale. E la polizia non interviene mai. In questo stato non siamo cittadini. Nel 1980 Israele si è annesso Gerusalemme, ma non ci ha esteso la cittadinanza. Non abbiamo diritto di voto. abbiamo solo un permesso di residenza permanente revocabile se non stai qui per più di 7 anni o se Gerusalemme non è più il centro della tua vita. Per esempio se lavori nella West Bank. Paghiamo tutti le stesse tasse, ma solo il 52% delle nostre case è allacciato all’acquedotto. Questo è lo stato unico. Neppure la resistenza è più una sola. Ahed ha scelto quello che era giusto per il contesto di Nabi Saleh. Ma qui saresti arrestato e basta. Arrestato e cacciato via. E comunque abbiamo bisogno di molto più che un’Intifada. Finora solo Hezbollah ha tenuto testa a Israele. Ma con una guerra, non con uno schiaffo”.
 
Yahia Rabee, 21 anni, Birzeit Student Council
“La storia di Ahed per un palestinese non è niente di speciale. Ahed è perfetta per voi, più che per noi: è bionda, senza hijab, con quell’aria così europea, così poco araba. Ma distrae da quella che è la priorità: l’Autorità palestinese. L’occupazione non è cambiata. Israele è sempre lo stesso, e anche noi siamo sempre gli stessi, nessuno si è arreso. Ma ora tra noi e Israele c’è una barriera in più, quella dell’Autorità palestinese, che spende un terzo del suo bilancio in sicurezza. Fa questo, di mestiere. Reprime. E abbiamo tutti paura. Ci arrestano e ci consegnano a Israele. In cambio, e ormai non è un segreto, di monopoli e rendite di posizione nei settori più vari dell’economia, dall’edilizia al commercio, dalle telecomunicazioni alle banche. I figli di Mahmoud Abbas, Yasser e Tareq, sono a capo di un impero che fattura milioni di dollari. E le loro aziende hanno infinite connessioni con l’Autorità palestinese. Ma se ti azzardi a scrivere di questo anche solo su Facebook finisci in carcere o ucciso. Questo è un regime autoritario. Il Consiglio legislativo non si riunisce dal 2007. Mahmoud Abbas governa per decreti: e il suo mandato è scaduto nel 2010. Non esistono più spazi di espressione e organizzazione. E così è difficile avviare una nuova Intifada. Sono tutti sfiduciati. Ti dicono: ‘Abbiamo tentato di tutto’. E non ha funzionato niente. E però non è vero: in cambio di Gilad Shalit, abbiamo ottenuto il rilascio di 1.027 prigionieri. Perché la violenza è un linguaggio che Israele comprende bene. Ed è quello con cui ci intenderemo”.
 
Sami Hureini, 21 anni, At-Twani
“In realtà, qui quello preso a schiaffi sono io. Da quando ero piccolo. Da quando andavo a scuola, e i soldati dovevano scortarci, e difenderci dai coloni. Dalle pietre e dagli sputi. Hanno fondato prima un insediamento, e poi anche un avamposto, lì dentro, dentro quel bosco, sono ovunque. E sono armati. Altro che schiaffo: se mi avvicino, mi sparano. Anche se onestamente, non è solo questo. Soprattutto per la mia generazione. Sono cose blasfeme, ma la verità è che vogliono andare tutti in Israele, funziona tutto molto meglio, è tutto molto più avanti. E l’unico lavoro possibile non è il commesso o il muratore. E onestamente, lo stato unico non sarà mai uno stato a maggioranza araba, come sperano in tanti. Perché se davvero un giorno gli equilibri demografici dovessero cambiare, a Israele sarebbe sufficiente chiedere all’Europa di lasciare entrare i palestinesi senza visto. E partirebbero tutti. Comunque, detto questo, non ho la minima intenzione di tirare uno schiaffo a un colono. Sono gli israeliani ad avere bisogno della violenza per restare qui, non io.
 
Anonimo, 31 anni, Nablus
Immagino ti abbiano già detto tutto… Che non abbiamo una leadership. E che comunque abbiamo tutti una sorella, un fratello in carcere, e quindi che novità è? E poi abbiamo il mutuo da pagare. Anzi, tre mutui. E ti hanno detto, no? Che se parli, qui, ti arrestano. E che tanto è inutile: tiri uno schiaffo a un soldato, e allora? Israele ha il nucleare. Non scriverai il mio nome, vero? Che non voglio guai. Ma al fondo, la verità è che Ahed ha coraggio, e noi no. E stiamo qui a trovare scuse.