La Stampa, 26 febbraio 2018
Intervista a Frank Horvat. La fotografia è l’arte di escludere
Sbircia sull’iPad, poi sul computer, in questo tardo pomeriggio, luminoso e gelido, nella sua casa-laboratorio alle porte di Parigi. Frank Horvat, 89 anni, ha il sorriso di un anziano dolce e saggio. Parla con cura (in un italiano perfetto), riflettendo, perché «a me è sempre piaciuto filosofeggiare». Lo dice con una punta d’ironia. Ai Musei Reali di Torino arrivano le sue istantanee di ogni tempo, una vita intera. Nato nel 1928 nell’Istria italiana, ad Abbazia (oggi Opatija, in Croazia), fuggito con la famiglia a Lugano nel 1939, ha studiato all’Accademia di Brera a Milano dopo la guerra e fotografato l’alta moda agli albori a Firenze già nei primi Anni 50. E poi tanti viaggi, fino all’India, anche dopo il trasferimento a Parigi nel ’55. «La fotografia assomiglia più alla poesia che alla pittura», spiega: «non è tanto un grafismo ma un’associazione d’idee».
Lei dice anche spesso che «la foto è l’arte di non premere il bottone»…
«Perché è l’arte di escludere. Quando uno dipinge o scrive, ci mette qualcosa. Invece, nella fotografia, quello che si fa è soprattutto togliere. E con l’inquadratura scelta, togliendo, la foto parla».
Com’era l’Istria dov’è nato?
«Multietnica, tanto più intorno a me. I miei genitori erano medici: papà ungherese e mamma di Vienna. Mio padre comprò una casa di cura, che poi venne convertita in albergo. Lui parlava tedesco con mamma, ungherese con sua madre, croato con il personale dell’hotel, italiano con i carabinieri. E in qualche modo tutte le lingue dei clienti».
Anche lei è un poliglotta.
«Mi ricordo certe sedute di foto di moda: una modella parlava inglese, un’altra tedesco, una italiano. E io davo istruzioni a ognuna nella sua lingua. Mi sembrava di essere a casa».
Nella moda fu il primo a ritrarre le modelle per strada e nella vita quotidiana. Perché?
«In studio le modelle si davano un’apparenza, truccandosi e pettinandosi. Ma me interessava cosa ci fosse dietro. Tanto più che nella strada succedevano delle cose: ecco, mi piaceva mettere le modelle in situazioni dove c’era altro».
Poi ha iniziato a fare anche fotogiornalismo. E ha incontrato Henri Cartier-Bresson. Che influenza ha avuto su di lei?
«Grandissima. Gli mostrai le mie foto. Lui le prese e le mise alla rovescia, a testa in giù. Era come se non gli interessasse l’espressione delle persone o quello che raccontavano. Le voleva guardare solo dal punto di vista della composizione. Mi diceva: questa è squilibrata. Qui c’è un rettangolo e poi un tondo: non va bene. Io ho capito poco a poco, non con gli anni ma con i decenni».
Cosa voleva dirle?
«Che l’arte contiene un contenuto ma anche una forma. E senza la forma il contenuto non funziona più. Anzi, il fatto che si debba rispettare una forma obbliga l’artista a rimaneggiare continuamente il contenuto. E poi, alla fine il vero contenuto è la forma. Ora passo molto più tempo a scrivere che a scattare foto. E mi ritrovo a cambiare parole qui e là, per il suono o il ritmo. Ho l’impressione che la cosa essenziale sia quella».
Cartier-Bresson le dette altri consigli ?
«Mi disse di non usare la Rollei ma una Leica. E soprattutto l’obiettivo da 35 mm. La foto era così determinata dall’inquadratura. Quello che restava fuori, faceva la foto».
Nel 1968 lei era qui a Parigi. Che ricordo ne ha?
«L’ho odiato. Mi sono sempre state antipatiche le rivoluzioni e antipatici i rivoluzionari. Quella del ’68, poi, era una rivoluzione facile, che non ha cambiato niente. Era ridicola».
In quegli anni per lei cominciava un percorso molto personale, più artistico. Iniziò perfino a farsi degli autoritratti.
«Per me la foto è sempre una reazione a qualcosa che mi meraviglia. Mi guardo allo specchio e mi dico: questo sono io. Una fotografia è la risposta a una meraviglia».
È stato pure uno dei primi a sdoganare il digitale e il photoshop: perché?
«Permette di modificare la foto ed eliminare degli errori. In realtà si lavorava su una foto già da prima del digitale. L’idea che colga un attimo e non si possa fare niente, si prende com’è, non è mai stata vera, perché le foto sono state sempre stampate e chi le stampava ci faceva una sorta di cucina. Il digitale permette più miglioramenti».
Anche la preoccupazione per la luminosità è una caratteristica del suo lavoro.
«La luce ti dà l’impressione che quello che si ritrova nell’immagine non si ripeterà mai più. Penso spesso a un quadro di Rembrandt, dove c’è un’ombra sulla metà di un viso».
Guardando le foto che ha deciso di mostrare a Torino, sono molto eclettiche. È d’accordo ?
«È un aspetto che mi è stato rinfacciato, mi dicono che non sono riconoscibile. È anche per questo che presento le mie foto nell’esposizione con ben quindici chiavi di lettura».
Come vuole essere descritto ?
«Come un fotografo italiano. Mi considero europeo. Ma, se devo scegliere una nazionalità, mi sento tremendamente italiano».