La Stampa, 23 febbraio 2018
Camilleri: «Fiero di aver raccontato l’altra Sicilia. Mai voluto guadagnare con la mafia»
E poi, arriva Andrea Camilleri e tutto prende un altro sapore. Il suo romanzo storico, la sua indignazione, la sua tagliente analisi sulle cose semplici. Quanti vedranno La mossa del cavallo lunedì su Rai 1, assisteranno alla rappresentazione di un western siciliano nella Vigata del 1877, con finale tarantiniano e rimandi a Sergio Leone che si estendono allo studio dei costumi e al mantello che evoca C’era una volta il West.
Perché la Sicilia, racconta Camilleri, quella era; «Terra di nessuno, terra di frontiera, violenta, aspra, appassionata e quella ancora è». A dare il volto al protagonista, un intenso Michele Riondino che affronta un romanzo difficile e duro che oltre all’intreccio giallo ci mostra un circo di maschere paradigmatiche e, soprattutto, attacca il malgoverno sabaudo e i troppi errori compiuti nel post Unità, anticipo ai mali attuali.
Western a Vigata
«Quando nel 1868 si chiese ai siciliani di far parte del Regno d’Italia ci fu un consenso plebiscitario – continua Camilleri -. Com’è che dopo meno di quarant’anni si proclamò proprio in quella terra e per tre volte lo stato d’assedio? Com’è che giunse un esercito fucilatore autorizzato a sparare ai contadini? E la leva obbligatoria che portava le famiglie a privarsi di forza lavoro e dunque alla fame? Eppure, nell’esercito, accanto a ragazzi di altre regioni, questi contadini impararono a capire l’italiano compiendo di fatto l’Unità d’Italia. Partendo da un errore».
Passato. Ma è sul presente politico che lo scrittore ha un moto di fastidio: «Non sto assistendo a una campagna elettorale. Impossibile dare un nome a una cosa tanto disgustosa tra false promesse e insulti reciproci da comari. E il divario tra Nord e Sud oggi è spaventoso». Maestro... «No, non chiamatemi così. Sciascia lo permetteva solo perché era stato veramente maestro di scuola. Io no».
Camilleri senza Montalbano che aleggia in qualche modo. «Mi preoccupa affrontare il pubblico dopo gli straordinari consensi che ha avuto il commissario. Una cosa non capisco. Vorrei conoscere uno a uno chi si guarda le repliche per chiedere loro: “Che cosa ci trovate?” Per me resta un enigma». Sottile frecciatina alla Rai che ripropone i gialli di Vigata come fossero ossigeno. E ora si prepara a sfornare un’altra saga, quella dei romanzi storici, peraltro molto belli. Maestro no, ma ambasciatore sì, di un’altra Sicilia: «Questo mi piace, ambasciatore di una realtà diversa da quella mafiosa. Ho ricevuto centinaia di messaggi da stranieri che idolatrano la Sicilia attraverso la dolcezza della memoria che conservo della mia terra. Non ho mai voluto scrivere di mafia, tranne una volta. Con i pizzini di Provenzano feci un libro. Ma tutti i proventi li donai agli orfani di mafia. Non ci volevo guadagnare una lira».
Un romanzo estremo, il nostro in costume, inquietante, che non mette il lettore nella condizione di comodità. Il protagonista è nato a Vigata ma è cresciuto a Genova e all’inizio parla in ligure stretto. La Liguria torna in Camilleri. Anche Livia, fidanzata di Montalbano è ligure: «È vero, amo Genova. E i genovesi. Quando posso la faccio tornare nella mia memoria aiutato dal suono della sua lingua. E poi nella storia vera, Leopoldo Franchetti, ispettore capo dei mulini che arriva in Sicilia e si trova ad affrontare marciume, omicidi e depistaggi che lo riguardano, era milanese. Mi cadevano le braccia per quel dialetto e allora l’ho fatto genovese».
E il western di Trinacria molto deve al linguaggio. Solo quando l’ispettore capisce che il dialetto è mentalità, è la chiave per capire un carattere, è l’humus storico culturale di un territorio, è giocare col nemico allo stesso tavolo (come sosteneva Falcone) allora parlerà solo in Siciliano e si salverà la vita. «Il dialetto diventa un espediente per comunicare in tanta zona ambigua».