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 2018  febbraio 23 Venerdì calendario

Con i profughi della guerra tra Erdogan e Assad «A casa non torneremo più»

Le montagne di Afrin interrompono di colpo la piana di Antiochia. Da Reyhanli, l’ultima città prima della Siria, il confine dista tre chilometri, e il fronte dell’ultima guerra in Medio Oriente, fra la Turchia di Recep Tayyip Erdogan e la Siria di Bashar al-Assad, appena una decina. Di notte si sentono i colpi sordi dell’artiglieria turca che bombarda le postazioni dei curdi dello Ypg e li spinge piano piano verso il capoluogo.

Fino a poche settimane fa anche Reyhanli era sul fronte, i razzi lanciati dai curdi hanno fatto due morti e una decina di feriti. L’aviazione turca ha poi distrutto le postazioni di lancio, ma la paura resta, soprattutto fra i profughi siriani, che sentono la maledizione della guerra inseguirli fin qui.
Il fronte è invisibile ma le notizie corrono veloci, alimentate dai familiari rimasti dall’altra parte, oltre il muro di cemento che ferisce la montagna a mezza costa, e sigilla la frontiera, e che possono oltrepassare solo i convogli dell’esercito turco, «soprattutto la notte». «Ad Afrin oggi sono arrivati i russi, polizia militare, anche loro si sono schierati con i curdi». Altre cittadine, come Tell Rifaat, sono ripassate sotto il controllo governativo ed è lo sviluppo che i profughi a Reyhanli temevano, perché qui non c’è molta simpatia per lo Ypg curdo, e tanto meno per il governo di Bashar al-Assad. Ma neanche, va detto, per i «barbuti» che hanno preso il controllo di Idlib. La speranza è che vinca la Turchia.
L’ingresso dei russi non è confermato, ma è chiaro che i governativi ed alleati si stanno trincerando, anche a Jindares, una cittadina che i turchi vogliono prendersi a ogni costo, per aprirsi la strada verso Afrin. Reyhanli con tutto il distretto di Hatay, è un angolo di terra incastrato fra la Siria e la Turchia, che è stato Siria fino al 1938, poi ceduto dai francesi ad Atatürk. E Siria sta ritornando a essere, perché, ondata dopo ondata, 130 mila profughi hanno sommerso la popolazione turca, ora in minoranza nella cittadina che conta in tutto 200 mila abitanti. Nelle strade le scritte sono in turco mai i bambini si rincorrono e gridano nel colorito arabo levantino. «Baad al-jabal», oltre le montagne, c’è Afrin, ci sono Aleppo e Idlib.
La nuova guerra fra Erdogan e Assad ad Afrin, ma anche gli scontri fra ribelli moderati e jihadisti che sono ripresi a Idlib, hanno spinto nuove ondate di profughi e seppellito le ultime speranze. «In Siria non ci voglio tornare, ma questa non sarà mai la mia patria», scuote la testa Atimad, 35 anni, chiusa nel suo caftano nero, il fazzoletto blu scuro in testa. Sta con la madre, tre figli e il fratello Mohammed in una casa ai margini di Reyhanli. Jana, la figlia più grande, ha un casco di capelli rossi e due occhi verdi pieni di curiosità. Sono fuggiti da Taftanas, un villaggio vicino a Idlib, il padre, Loqman, ha trovato lavoro come autista in una ong. Ma il salario è l’equivalente di 500 dollari, solo l’affitto ne porta via 200. E poi ci sono i fratelli rimasti in Siria da aiutare. Vita dura, senza speranza di integrazione.
All’inizio, spiega il fratello Mohammed, laureato in lettere, «il governo turco aveva lanciato un programma per integrare i bambini siriani nelle scuole, assumevano anche professori siriani, ma poi hanno ridotto tutto, per assumerti devi conoscere bene il turco e al massimo posso fare l’operaio». E anche i docenti siriani assunti sono di serie B, «vengono pagati 400 dollari, contro i 1100 di un insegnante turco». Anche in Siria, prima della guerra, era difficile trovare un lavoro, ma non per i laureati, e qui in Turchia Mohammed ha sbattuto contro un altro tipo di discriminazione: «Là i posti buoni erano solo per gli alawiti, gli amici di Assad, qui sono per i turchi, e io sarò per sempre straniero».
È il destino che è toccato anche ad Abdulrahman Dikh Salim, 67 anni, che ha insegnato letteratura classica araba per quarant’anni, anche ad Abu Dhabi, e ora è presidente di una improbabile Lega dei liberali siriani, e campa con il suo «dikkane», il negozietto di alimentari che ha aperto con qualche risparmio: con gli scarsi introiti deve mantenere 16 persone. «Per tremila anni siamo stati la luce del mondo – sospira – abbiamo dato al mondo l’alfabeto, la civiltà, le tre grandi religioni monoteiste, tutto è nato dalla Siria e ora siamo ridotti così». Intende la «Grande Siria», che nei sogni nazionalisti comprendeva anche Libano, Iraq, Giordania. È scappato dal regime e dai «barbuti» islamisti, «due facce delle stessa medaglia». Il pensiero è ora per i «fratelli del Ghouta» ma per i curdi di Afrin, sotto le bombe anche loro, non ha molta compassione: «Sono affari loro, amo il popolo curdo ma la dirigenza dello Ypg pensa solo al potere e ai soldi, stanno un po’ con gli americani, un po’ con i russi, con gli iraniani, con Assad».
Lungo il corso principale, seduti sulle aiuole che fanno da spartitraffico, c’è una sequenza infinita di bambini che chiedono l’elemosina, vendono fazzoletti, bottigliette d’acqua. «Metà dei minori siriani rifugiati non va a scuola – spiega Ali Saleh, della ong I Ponti della Speranza – il governo turco e le ong organizzano corsi, cercano di integrare le scuole pubbliche, ma non ci sono soldi». Saleh aveva un master in Economia e dirigeva le commissioni degli esami scolastici nella regione di Deir ez-Zour. «Fra il 2012 e il 2014 la rivoluzione ci aveva dato grandi speranze. Non avevamo mezzi ma eravamo riusciti a tenere in piedi il sistema scolastico, in parte qui in Turchia, finché, all’inizio del 2014, sono arrivati loro». Cioè l’Isis. Saleh ha lasciato per sempre la Siria e ora lotta per strappare i giovani «dalla vita di strada».
Saleh non azzarda nessuna critica al governo turco, anche se 14 ong sono state chiuse negli ultimi mesi per «problemi burocratici», e centinaia di siriani sono rimasti a spasso. Il clima è cambiato negli ultimi due anni. «È come se ci volessero cacciare fuori a calci – racconta Diyah, una laurea in Ingegneria a Homs e ora un lavoro da commesso -. Ogni giorno almeno una casa dei siriani viene rapinata, e anche se i ladri vengono presi, la polizia li lascia andare». Diyah era fuggito in Libano e aveva chiesto asilo alla Germania, assieme alla madre e due fratelli. Il padre è morto durante la guerra. «Ci hanno tenuto in sospeso per un anno, poi ci hanno detto che la pratica era interrotta. E siamo venuti in Turchia. Speranze? Qui, come diciamo noi, si vive solo per respirare. Non credo più in nulla».