il Fatto Quotidiano, 23 febbraio 2018
La favola di Catilina sulla res publica
Alessandro Banda, veneto ma meranese d’adozione, è l’ultimo degli scrittori enciclopedici, sulla scia dei sommi bizzarri e eruditi dell’Ottocento, Carlo Dossi e Vittorio Imbriani. Fategli qualsiasi domanda che riguardi la cultura presente o passata e vi risponderà a tono. Introverso e silenzioso, come chi passa la più parte del suo tempo sui libri, studiandoli, non sfogliandoli, ha letto una montagna di volumi per scrivere il suo nuovo romanzo, Congiura (Guanda, pp.334, 19 euro).
Non si tratta di un polpettone pseudo-storico, come oggi è di deprecabile uso, e come potrebbe far credere, creando equivoci, il titolo, ma romanzo dottissimo e insieme appassionante. Perché il protagonista, Lucio Sergio Catilina, celebre per la congiura che porta il suo nome, si profila a mano a mano attraverso la chiacchiera che su di lui fa Roma intera nell’anno 63 a.C., dai plebei delle taverne agli aristocratici nelle loro lussuose ville. Avrà davvero ucciso la prima moglie e il figlio? Avrà rubato tutto il rubabile durante la carica di governatore dell’Africa? Ed è vera la sua fama di uomo depravato? E, infine, non sta forse macchinando azioni scellerate contro il popolo e il senato romano? Fino, invece, ad apparire protagonista, nell’epilogo, col suo dramma di uomo solo, proprio lui che ha proclamato: “Seguo il Destino”, tradito dal destino avverso. Quando, sconfitto in battaglia, mentre si illude di diventare il salvatore di Roma, liberandola da un’oligarchia corrotta, lui e la sua armata raccogliticcia di fronte alla preponderanza numerica dell’esercito romano, imparerà “a non essere più niente”, inerme di fronte alla propria morte. L’ultima immagine che appare ai suoi occhi, “una nuvola sfrangiarsi nel cielo terso di gennaio”. Romanzo, dunque, storico, ma ancor più, nel medesimo tempo, esistenziale: perché su Catilina come sugli altri personaggi, così eloquenti nella loro spocchia, a partire da Cicerone, il nemico giurato, grava l’ombra del Fato che tutto travolge, le fortune come le miserie. Ma il libro vive anche della coloritura di una serie di figure e figurette, intente – loro unico scopo – all’utile personale. Giulio Cesare, appena nominato pontefice massimo, fissato nell’ambizione di diventare padrone di Roma; Cicerone, abile e enfatico oratore, ma cinico opportunista e maniaco collezionista di ville sfarzose.
Pompeo, che, lontano da Roma, si è procurato una fortuna a base di saccheggi e violenze, combattendo vittoriosamente contro Mitridate re del Ponto e assediando con successo Gerusalemme (ora sogna un ritorno da trionfatore a Roma e cariche supreme). Solo nominato in un paio di passi, Catullo, “questo ragazzotto che scrive mica male” (così commenta su di lui Cesare). Perché al dramma si mescola, nei dialoghi, l’ironia dell’autore, di fronte alle sentenze, alle proposizioni maiuscole, alle certezze dei suoi personaggi. Né manca, con un trapasso di secoli, una possibile allusione ai vizi del nostro tempo: gli “ottimati”, i “buoni” “vi hanno detto che il nostro Stato è una Democrazia, è una Repubblica, questo ci hanno raccontato, questa bella favola”.