Il Sole 24 Ore, 23 febbraio 2018
«Migranti vitali per la nostra demografia» dice il Rapporto sulla sussidiarietà 2017/2018
«Cosa serve ai giovani affinché possano essere pienamente artefici del proprio futuro e dello sviluppo dei luoghi ai quali appartengono?». La domanda è una sfida ed è la sfida rispetto alla quale si misurerà la capacità del nostro Paese e, in particolare del Mezzogiorno, di trasformare i primi, ma timidi, segnali di ripresa in recupero strutturato, solida ricchezza. Giovani e Mezzogiorno dunque: le due fragilità strettamente intrecciate senza la cui risoluzione non c’è sviluppo. Lo dice chiaramente il volume dal titolo «Sussidarietà e...giovani al Sud. Rapporto sulla sussidarietà 2017/2018», curato da Alberto Brugnoli e Paola Garrone ed edito dalla Fondazione per la Sussidiarietà, che per la prima volta tenta di analizzare le due grandi “questioni” superando il piagnisteo dei numeri (sono circa 716mila gli uomini e le donne che negli ultimi quindici anni hanno lasciato definitivamente le regioni del Sud) e, soprattutto, tracciando soluzioni, prospettive, idee. A cominciare dal ruolo dei migranti, che qui diventa cruciale. Perché – viene spiegato – «il movimento della popolazione italiana negli ultimi due anni mette in evidenza come l’apporto della componente straniera sia, in questo momento storico, di vitale importanza per la tenuta della dimensione demografica della penisola». Fondamentale sarà allora che il Mezzogiorno recuperi quella centralità nel Mediterraneo che gli ha assegnato la storia e oggi la geopolitica. «Il Mezzogiorno d’Italia – si legge – rischia di pagare il peso organizzativo ed economico del salvataggio e della prima accoglienza dei migranti, senza veder poi arricchire il proprio patrimonio demografico e, soprattutto, il proprio capitale umano in termini di giovani stranieri che si integrano produttivamente nel tessuto sociale ed economico del territorio. Il vero problema, quindi, è rappresentato dalla incapacità nel rendere attrattive ai migranti anche le aree più svantaggiate del Paese, creando un continuum di integrazione...».
La prospettiva del testo è originale: la ferita, prima ancora che economica, è demografica e motivazionale. Che non vuol dire che i giovani del Sud, viene ben raccontato, manchino di motivazione personali, di energie, di progetti. Tutt’altro. Mancano piuttosto di formazione di qualità e fiducia nel contesto in cui sono costretti a muoversi. Sfiduciati in particolare da quelle patologie strutturali che i padri non hanno saputo risolvere (criminalità, corruzione, assenza di meritocrazia). E allora serve «un patto intergenerazionale senza la quale i giovani continueranno a dover pagare per i privilegi acquisiti dalle generazioni che li hanno preceduti, in anni per loro già abbastanza critici».
Il quadro è quello di un Sud sempre più povero di giovani e con i giovani che restano sempre più inadeguati dal punto di vista delle competenze. Limite, quello della formazione, che peraltro colpisce in egual modo anche i giovani del Centro Nord: «Per quanto riguarda l’istruzione «l’Italia è l’unico Paese che ha disinvestito (-13,7%) passando dai 7.132 euro per studente nel 2001 a 6.157 nel 2011». L’analisi infatti del sistema universitario non salva nessun ateneo, ma nel caso delle agenzie formative meridionali è senza scampo. Un dato tra tutti ne dà la misura: il numero di accordi internazionali siglati dalle università del Mezzogiorno. Su un totale di 5.185 accordi firmati tra il 2012 e il 2016, il totale delle intese raggiunte al Sud è pari a 1.114. Basti pensare che i soli atenei laziali ne portano a casa 956, seguiti da quelli lombardi con 871 accordi.
«Un primo contributo centrale di questo rapporto è dunque l’invito a guardare il Sud, riconoscendone le caratteristiche e scoprendo il ruolo unico che può ricoprire. L’Italia, ben prima del tema del federalismo fiscale, deve affrontare quello del federalismo culturale, accettando percorsi di sviluppo autonomi e rinunciando a pensare nello stesso modo a Palermo e a Torino».