la Repubblica, 23 febbraio 2018
C’era una volta l’Amazzonia
DOURADOS, STATO DEL MATO GROSSO DO SUL, BRASILE “Quando il futuro è entrato nella nostra terra, tutto è finito”. L’anziano sciamano, circondato da capi coltivati di soia transgenica, ricorda quando tutto era ancora foresta lì in Amazzonia. Animali selvatici, pesci nei fiumi e alberi da frutta: non esistevano abiti, si andava in giro nudi. E ricorda quando i primi coloni comparvero a Guya Rocha proponendo alla comunità di lavorare al disboscamento. Per un indigeno, disboscare è un’attività produttiva, liberare la terra dalla foresta per coltivare gli orti. I Kaiowà lavorarono duramente abbattendo alberi e strappando radici, ma presto si accorsero che i coloni non erano arrivati lì per coltivare. Dopo aver spazzato via qualche centinaio di ettari i coloni, aiutati dagli indigeni, spianarono il terreno per costruire una pista d’atterraggio. Pochi giorni dopo arrivò un aereo grandissimo e quando si aprì il portellone, scesero una ventina di mucche. L’anziano non aveva mai visto un aereo, tantomeno una mucca, ma capì all’istante che quell’animale lento e goffo che inciampava in discesa sulla rampa, era da quel momento il suo peggior nemico.
Sono passate solo due generazioni e oggi i satelliti mostrano delle colossali macchie scure che continuano ad allargarsi nel cuore di quella foresta amazzonica. Sono come buchi neri, che inghiottono la vita: quella della natura e quella degli uomini. Papa Francesco a gennaio è andato a incontrare le comunità indigene nella loro terra sempre più in pericolo. E ha puntato il dito contro le multinazionali: “Dirigono la loro avidità sul petrolio, il gas, l’oro e le monocolture agro- industriali. I popoli originari dell’Amazzonia non sono mai stati tanto minacciati nei loro territori come lo sono ora». Uno sfruttamento piccolo e grande di aziende planetarie e di minatori illegali, di taglialegna e di allevamenti, che cancella tutto. Quello che accade in Amazzonia appare ormai solo come la punta di un iceberg: la parte sommersa è il territorio sterminato di foreste abitate un tempo dai Tupi Guaranì che nel 1500 si estendeva da Misiones, nel nord dell’Argentina, a tutto il Paraguay e l’Uruguay ed in Brasile dalla costa Atlantica alla Cordillera delle Ande, fino al confine con l’impero Inca con cui i Tupi Guaranì erano permanentemente in conflitto. Oggi rimangono soltanto alcune aree selvagge lungo i fiumi, a Misiones in Argentina, nel Chaco del Paraguay e a Santa Cruz de la Sierra in Bolivia. Il resto è stato invaso dalle case: zone urbane circondate da terre dedicate agli allevamenti e alla produzione di mais e soia transgenica, canna da zucchero per la produzione di etanolo combustibile.
Tribù amazzoniche e quelle guaranì oggi sono unite da un destino comune, vissuto su piani temporali sfalsati. Le tribù amazzoniche lottano per salvare le loro terre ancestrali dalla deforestazione: combattono per proteggere il presente. Le tribù guaranì invece lottano per ritrovare il passato: popolano le bidonville delle città e vogliono tornare nelle terre dei loro avi.
Dopo aver raccontato con tre film l’Argentina, nel 2004 ho cercato la storia per affrontare al cinema la questione indigena in America Latina. Pensavo all’Amazzonia come in sogno, non la conoscevo ancora ma l’immaginavo come la faccia nascosta del nostro mondo, la frontiera ancora intatta, la matrice di fantasmi innominabili, il polmone del pianeta, e soprattutto, la terra dove si possono ancora trovare le ultime tracce di come era il mondo arcaico prima dell’arrivo degli occidentali. Decisi di trarre un film dal libro Yanoama di Ettore Biocca che nel 1964 intervistò Helena Valero, una donna bianca appena ritornata alla civiltà occidentale dopo 27 anni vissuti nella foresta con gli indigeni: una versione moderna di Tarzan.
Nel 1937 Helena aveva cinque anni quando venne rapita; risaliva il Rio Negro sulla canoa con suo padre, sua madre ed i suoi due fratelli quando scattò l’assalto dei guerrieri indi. “Intorno a noi tutto era silenzio e noi remavamo. Forse gli Indi sono restati indietro”, pensavo; ma gli Indi correvano lungo le rive. Improvvisamente cominciarono ad arrivare frecce da un lato. ‘Allungatevi nella canoa’, disse mio padre. Io mi abbassai, ma una freccia mi attraversò la pelle della pancia e si infilò qui, nella coscia sinistra. Gridai e cercai di alzarmi, ma non ci riuscii. La freccia aveva fissato la coscia alla pancia. Gridavo, gridavo; il vestito non si strappava, perché era nuovo. Mia madre afferrò la freccia, la tirò via e la gettò nell’acqua; la punta si spezzò, un pezzo restò nella pancia e l’altro nella coscia. Mia madre, con le dita tirò fuori dalla pancia il pezzo della freccia; quello nella coscia era entrato profondo e non si vedeva più. Allora cercò di prenderlo coi denti; mordeva, spingeva, ma la punta non appariva, era profonda. Alla fine riuscì ad afferrarla coi denti; la sputò nell’acqua”. Helena svenne. Si risvegliò in una capanna Yanoama: la sua famiglia era riuscita a scappare in canoa lungo il fiume, lei no.
Gli indi la curarono ma poco tempo dopo un’altra tribù, i Karatewetari, attaccò il villaggio: uccisero tutti gli uomini e i bambini maschi, poi si spartirono le donne. Per alcuni mesi Helena visse con loro, ma ci fu un nuovo attacco e un altro rapimento: questa volta andò nelle mani degli Sciamatari. Un giorno, non conoscendo ancora bene i segreti della foresta, cucinò dentro un involucro di foglie delle uova di rospo, senza sapere che erano velenose. Una bambina le mangiò prima di lei e morì. Gli Sciamatari decisero di vendicarla, sacrificando Helena con un omicidio rituale: avrebbe prima dovuto mangiare le ossa della piccola vittima, polverizzate e mescolate nella pappa di banana, e poi l’avrebbero uccisa. Ma qualcuno avvertì Helena, che fuggì nella foresta.
Gli Sciamatari la inseguirono e la colpirono con una freccia imbevuta di curaro, solo di striscio però: il veleno non era sufficiente ad ammazzarla. La giovane bianca si ritrovò sola e ferita nella foresta, vagando per sette lune. Quando ormai era allo stremo, Helena decise di avvicinare un’altra tribù, i Namoeteri. Il capo la prese come moglie, visse con lui per molti anni, in compagnia di altre quattro mogli. Ebbe con lui due figli, in una relazione intessuta nel rispetto e nell’ammirazione per questo indio che univa ad impeti di eccezionale coraggio e di crudeltà, manifestazioni di delicata dolcezza.
Le dinamiche tribali però non conoscono la pace. Anche il capo venne assassinato ed Helena si ritrovò da sola. Con i due figli scappò di monte in monte, ma ormai conosceva molti gruppi indi, sapeva a chi rivolgersi e fu aiutata dalle donne dei villaggi. Trovò un altro marito, Akawe, e partorì altri due figli: ma del nuovo compagno Helena non aveva nulla da ammirare. E dopo anni tristi, fece il grande passo: tornare alla sua civiltà d’origine. Partì con il marito e i due figli più piccoli, camminò per tre giorni fino alla missione protestante e da lì alla città vicina. Dopo anni dal suo rapimento, Helena si presentò a uno dei suo fratelli, sconvolto nel trovarsi davanti una donna nuda con due bimbi che sosteneva di essere la sua sorellina scomparsa lungo il fiume. L’uomo si limitò a comprarle dei pezzi di stoffa per rivestire lei e la sua famiglia, mettendola poi alla porta.
Il mondo dei bianchi era diverso da quello che Helena aveva immaginato, più cattivo di quello che aveva lasciato. Si ritrovò a finire i suoi giorni ai margini della città di Manaus e ai bordi della foresta. Non era più bianca e neppure indigena. Quasi cieca, sopravvisse solo grazie ad una mucca e un asino: quelli che il medico- antropologo Ettore Biocca le aveva donato in cambio della sua testimonianza.
Questa doveva essere la mia storia: ho scritto una sceneggiatura e mi sono messo in viaggio per i primi sopralluoghi. Ho risalito lo stesso Rio Negro di Helena Valero e più mi addentravo nella foresta più avevo la sensazione di essere in un luogo anonimo: l’Amazzonia che avevo sognato non era quella che vedevo dalla barca. Nei film, l’Amazzonia viene descritta con liane e tronchi di diametro immenso, ma alberi così grossi sono rarissimi e non ne ho incontrato nessuno. Fissavo la costa per scorgere indigeni ma durante tre giorni di navigazione non ne ho visto neanche uno. Ero in viaggio con Caterina Giargia, mia compagna di lavoro e di vita: lei mi ha presentato una coppia di passeggeri che l’avevano incuriosita: tratti indigeni e vestiti all’occidentale, con due bei orologi al polso. Fin lì nulla di strano, ma quella coppia era partita da Manaus dove abitavano, per andare a passare tre mesi nella foresta dove, travestiti da indigeni con i corpi nudi e dipinti, in un finto villaggio di capanne tradizionali, fintamente abitato da una trentina di altri indigeni, avrebbero ricevuto gruppi di turisti “intelligenti” condotti sul posto da scaltre guide alternative. Avrebbero tutti danzato intorno al fuoco, bevuto e mangiato cibi tradizionali. Vendevano emozioni da “primo contatto”, l’incontro con l’indio che non ha mai visto prima l’uomo bianco. Una specie di Disneyland tribale.
L’Amazzonia terra vergine abitata da indigeni che non hanno mai conosciuto l’uomo bianco, è una nostra proiezione. Certo, esistono ancora tribù di qualche decina di individui, che vivono chiuse nella foresta e che lanciano frecce al cielo quando un bimotore sorvola le loro capanne. Ma quanto ancora potranno rimanere isolate quelle poche centinaia di nativi? E se anche oggi sono lontane da tutto e da tutti, chi può mai sapere se trecento anni fa quelle stesse tribù non hanno avuto contatti con dei coloni bianchi?
L’ultima tappa del nostro viaggio in Brasile era Dourados, nel Mato Grosso do Sul, al confine con il Paraguay. Siamo andati laggiù inseguendo una foto: lo scatto in bianco e nero che mi aveva mostrato un’attivista di Survival, organizzazione che si occupa della difesa degli indigeni. L’immagine era molto dura: due ragazzine guaranì- kaiowà appena dodicenni appese, ognuna con un cappio al collo, a due alberi in mezzo alla vegetazione più fitta. Si erano suicidate insieme, pochi mesi prima. Erano uscite dalla bidonville dove abitavano nei dintorni di Dourados, si erano procurate qualche metro di corda, avevano comprato dell’alcol puro per farsi coraggio e avevano marciato fino a uno di quegli sparuti resti di foresta rimasta in piedi in mezzo ai campi sterminati di soia transgenica Monsanto.
All’aeroporto ci aspettava Nereu Schneider, l’avvocato che difende i diritti dei kaiowà. Lui ci ha proposto di andare direttamente a Guya Rocha per conoscere Ambrosio Vilhalva. È il leader della comunità che aveva da poco abbandonato la bidonville di Dourados per occupare le proprie terre ancestrali: aveva preso quella decisione con gli sciamani, proprio dopo il suicidio delle due adolescenti.
Durante quelle due ore di viaggio, scivolando sulle strade di terra rossa bagnata, col rischio permanente di rimanere impantanati, ho chiesto a Nereu di quelle ragazze. La loro fine non era un’eccezione. Mi ha spiegato che c’erano molti suicidi tra adolescenti kaiowà: nasceva dall’indeterminatezza della loro esistenza. Sopravvivevano nelle baraccopoli senza terra, senza più identità: gli sciamani, custodi della tradizione, li sgridavano se si comportavano come gli occidentali; ma non venivano fatti entrare negli shopping center dove scorrazzavano i figli dei cowboy produttori di soia. Erano ragazzi imprigionati in mezzo al guado: senza passato, né futuro.
A Guya Rocha c’era l’incarnazione di questa dimensione: una manciata di capanne piantate in mezzo ad un campo di soia. Ci ha accolto un gruppo di ragazzini indios, con jeans e t- shirt ma archi e frecce a tracolla e un nugolo di cani al seguito. Il resto della comunità stava montando altre capanne, seguendo la tradizione: una struttura di tronchi, modellati con il machete. Il tetto e le pareti però venivano ricoperte con teli di plastica nera, comprati nei magazzini della città: il materiale meno costoso in assoluto. La plastica suppliva la mancanza di vegetazione, perché lì non c’erano più piante dove prendere le foglie per il tetto e per le pareti. Con il sole a picco, l’interno di questi loculi bui era rovente. Una volta quella terra piatta e spoglia era tutta foresta. Adesso era diventata una landa desolata.
Ambrosio Vilhalva aveva un volto scolpito, un indio con tratti simili a Charles Bronson. Per prima cosa, come segno di rispetto per gli sciamani, ci ha portato a conoscere uno degli anziani: un vecchietto alto e magrissimo, quasi cieco, con su un paio di occhiali da sole stile RayBan, che passava le sue giornate a pregare nella capanna rituale. Quella era l’unica costruzione interamente ricoperta di foglie. Gli ho chiesto di raccontarmi di quelle terre prima dei bianchi, mi ha descritto una foresta magica con animali selvatici e alberi da frutta, dove si viveva nudi. Ed è stato lui a raccontarmi l’arrivo dei coloni: “Quando il futuro è entrato nella nostra terra, tutto è finito”. Chiedono aiuto per disboscare, ma non per coltivare: vogliono allevare. Abbattono alberi in centinaia di ettari, costruiscono una pista di terra battuta e fanno piovere dal cielo il futuro: un aereo carico di mucche. Il papà di Ambrosio capì subito che quell’animale era l’inizio della fine.
“Una mucca occupa più spazio di un kaiowà”, mi dice. Man mano che gli allevamenti aumentano, gli indigeni si ritrovano confinati in aree sempre più ristrette finché scatta la deportazione: finiscono nelle bidonville, relitti umani ai margini della città. Non hanno un futuro e allora Ambrosio ha deciso di riprendersi almeno il passato. Ambrosio è da poco ripartito con i suoi, lasciando le baracche per rioccupare le sue terre. Mentre ci passavamo il mate, ho chiesto ad Ambrosio perché mai sono andati a finire lì invece di cercare zone con più vegetazione, dove la foresta c’era ancora. Succhiando la cannuccia mi ha risposto: “Ce la riprendiamo pelata la nostra terra, anche senza un albero. Perché questo è il nostro tekoha, qui sono sepolti i nostri avi”. Sotto la capanna ricoperta di plastica nera asfissiante, ho guardato quella distesa piatta di suolo esausto dopo decenni di coltivazioni intensive. E ho deciso: il mio film lo avrei girato lì e Ambrosio sarebbe stato il mio protagonista.
Era uno dei sopravvissuti alla conquista di cinquecento anni prima, un guerriero discendente dai Tupi Guaranì che combatterono contro gli Incas. Ambrosio non aveva perso nessuna delle sue tradizioni ancestrali, manteneva intatta la sua complessa cosmogonia, ben più articolata e sofisticata di quella cattolica che invano, per cinquecento anni, aveva tentato di imporre la sua visione del mondo. I Kaiowà vivono tra il cielo e la terra, vivono il luogo non come di loro appartenenza ma si sentono appartenere al luogo.
Le leggi brasiliane hanno sempre difeso il diritto delle popolazioni indigene a ritornare nelle loro terre, ma esigevano delle prove, la descrizione di com’era il luogo anni prima quando c’era foresta, l’identificazione dei fiumi che delimitavano il territorio. Alle autorità non bastava che si dicesse: “Qui da qualche parte c’è un cimitero”. Gli antropologi potevano scavare alla ricerca di resti umani riconducibili ai Kaiowà. I fazenderos invece aravano in profondità le zone che sospettavano potessero essere rivendicate, triturando così le ossa delle sepolture: depistavano la storia, facendo sparire le prove e rallentando il processo di attribuzione.
Era una guerra di proprietà: i diritti rivendicati dai Kaiowà, come abitanti originari di quelle terre da millenni, ed i diritti dei fazendeiros con i loro atti di proprietà di cinquanta- sessant’anni prima. Logiche inconciliabili. E dalla fine del 2016, dopo la destituzione del presidente Dilma Rousseff, il governo Temer ha scelto da che parte stare. Con nuove leggi ha annullato i decreti di attribuzione alle tribù originarie: i nativi sono solo un problema da eliminare dall’ordinamento giuridico. E lo stesso sta accadendo in molti altri paesi sudamericani che hanno una forte componente indigena.
Nel XVI Secolo, appena dopo la conquista europea e prima che si formassero le colonie nel secolo successivo, i pochi coloni rimasti nel Nuovo Mondo per sopravvivere dovettero stabilire un rapporto di scambio con gli indigeni. Per capire come si inserirono, si può fare un paragone con il cavallo che arrivò dall’Europa con le prime spedizioni. I pochi esemplari sbarcati dalle navi esplosero demograficamente per la scarsa competizione con l’ecosistema locale. Dopo tre generazioni, in un arco di 25 anni, i cavalli erano così tanti che i cronisti descrivevano le mandrie al galoppo come “montagne in movimento”.
Ma il cavallo non cambiò la cultura degli indigeni: lo inserirono nel loro sistema di vita tradizionale. Alcune tribù allevavano i cavalli come fossero altri animali domestici e poi li mangiavano. Altre lo cavalcavano in azioni di guerra migliorando la loro potenza, mantenendo però sempre intatte le loro tattiche tradizionali. Ecco, lo stesso avvenne con la cultura europea. I guaranì del litorale impararono a parlare inglese, spagnolo e portoghese per poter commerciare con le navi che portavano utensili di ferro a cambio di pellame e soprattutto di palo Brasil, un albero da cui si estraeva il colore rosso molto richiesto nel Rinascimento per tingere il velluto. Adottarono anche il sistema giuridico spagnolo, capirono subito che quelle leggi erano un’arma per imporsi sui rivali e proteggersi dagli abusi dei coloni stessi: molti leader indigeni avevano notai e firmavano documenti, facevano petizioni sempre all’interno dei meccanismi dei tribunali spagnoli o portoghesi. Il diritto romano diventò così uno strumento, afferrato dai capi locali per mantenere l’egemonia sugli altri leader indigeni e sugli europei stessi. L’assimilazione del diritto romano segue gli stessi meccanismi dell’adozione del cavallo e della lingua: si prende tutto quel che di nuovo arriva, pur che non alteri la propria logica tradizionale ancestrale. Per capire gli indios bisogna pensare come indios.
Ambrosio era l’erede di quegli antichi guaranì e la sua logica era rimasta la stessa.
Ho filmato un breve video del nostro primo incontro. Mentre stringeva sulla testa la cinta di piume, mi ha detto: “Mi sto mettendo la cravatta, i bianchi perbene si mettono la cravatta e allora lo faccio anch’io. Tutti mettono la cravatta! Quando viene un bianco è sempre vestito elegante. E anch’io metto la mia cravatta. I bianchi dicono: l’indio ha invaso la fazenda. No, l’indio si è ripreso ciò che è suo. La nostra arma è il Mbaraka, una zucca vuota con dentro i semi che muovendosi producono il suono che accompagna la preghiera; la nostra arma è la bocca; la nostra matita è una freccia. La Retomada significa che noi andiamo a riappropriarci del nostro Tekoha”.
La Retomada ha significati politici e religiosi che noi non riusciamo a comprendere. “Nessuno decide per gli altri, perché tra noi siamo tutti uguali. Il nostro sciamano prega per una, due settimane e poi ci dà una risposta, sì o no. Andate e occupate il posto. Qualcuno pensa che per noi sia un problema fare queste cose. E invece no. I fazenderos credono che vogliamo solo la lotta. No, noi siamo pronti a incontrarli. Qui nella riserva di Guya Rocha ho affrontato molti balordi armati mandati dai fazendeiros e anche gente della polizia. Mi hanno sparato proiettili di gomma. Ecco qua il segno: è entrato nella pelle, ma non è penetrato. Quando gli Indios iniziano la Retomada conficcano 3 o 4 frecce in terra. È la protezione del ‘Grande Spirito’. I bianchi passano e dicono: queste frecce non ammazzano nessuno!. Ma quando le prendono e ci giocano, la malattia rimane nella loro mano. Passano uno, due anni, poi al terzo cominciano i problemi: emorragie, dolori alla schiena, reumatismi alle ossa. Accade perché loro non credono”.
Sotto la capanna rovente di Ambrosio ho capito che avevo trovato un film: il viaggio si era concluso, avrei accantonato Helena Valero in Amazzonia per raccontare i kaiowà, la storia della Retomada come riproduzione contemporanea della Conquista. Avevo i luoghi dove girare il film e gli attori, i kaiowà erano naturalmente inclini al teatro, alla recitazione, maestri dell’arte retorica. Osservando una riunione con le autorità regionali, ho studiato la loro strategia. Prima ha parlato un indigeno, elencando le loro rivendicazioni territoriali, senza alzare la voce e con un tono pacifico. Le autorità regionali lo ascoltavano svogliate pronte a ribattere che quelle rivendicazioni non erano accettabili, quando dal fondo dell’assemblea che si svolgeva in una grande capanna, si è alzata una donna kaiowà urlando, piangendo, ripetendo le stesse cose che l’indio aveva appena detto, ma con un effetto completamente diverso. Ho compreso allora quanto fosse sofisticata la loro arte retorica. E che loro sarebbero stati i miei attori.
Filmando le improvvisazioni, mi sono accorto che i kaiowà non conoscevano la potenza del silenzio al cinema. Le immagini che consumavano erano quelle della televisione che sbirciavano in qualche bar di Dourados, telenovelas sempre molto parlate. Allora ho proiettato per un folto gruppo di loro, su uno schermo bianco, due sequenze di film storici: il duello di Uccelli di Alfred Hitchcock. Due sequenze senza dialoghi, solo musica nella prima e rumore di batter d’ali nella seconda. Sul primo spezzone hanno capito immediatamente che quei volti silenziosi stavano raccontando una storia e che la capivano senza dialoghi. Poi ci fu un urlo di entusiasmo quando gli uccelli attaccano la cabina telefonica, parteggiarono tutti per gli uccelli, la vendetta degli animali sugli uomini li entusiasmava.
Durante le riprese Ambrosio mi guardava prima del ciak e con una mezza parola mi diceva: “Clint?”, io assentivo. Partiva la scena tra Nadio, il suo personaggio, e l’attore famoso di São Paulo che interpretava il fazendeiro. L’attore non sapeva quale fosse la preparazione di Ambrosio e forse pensava che da professionista avrebbe dominato la scena. Ma dopo il ciak, l’attore rimaneva a lungo in attesa della battuta di Ambrosio, che ricordando i silenzi di Clint in C’era una volta il West, lo faceva aspettare, prendendo vantaggio. E poi dominava l’intera scena.
Prima delle riprese ho chiesto aiuto ad Ambrosio per comunicare agli altri attori indigeni alcuni segreti della finzione cinematografica che lui illustrò a modo suo: “Se qualcuno deve essere colpito da una freccia, uno tira l’arco e l’altro si butta all’indietro, così (si getta a terra). Quando cade, loro si fermano e gli mettono la tinta colorata di rosso, poi ricominciano a filmare. Loro mettono qualcosa anche sotto la camicia per macchiarla. Sembra davvero sangue, ma non esce dalla pelle. È tutto una finzione, non c’è niente di vero. Quindi, se qualcuno si spaventerà per una pistola finta… non potrà fare questo film! Per ogni tre parole nostre, loro ne scrivono soltanto una. La storia non è la verità, è una copia della realtà ma un po’ diversa: simile, non uguale. Loro scrivono qualcosa su di noi, ma non tutto, altrimenti, la gente penserebbe di noi che siamo degli animali della foresta. In questo libro lui descrive la nostra realtà e la nostra vita, ma descrive solo ciò che noi gli diciamo, quello che gli facciamo sapere. In ogni caso, non è la verità. È soltanto una finzione per mostrare com’é la nostra vita, ma non è la verità”.
Il film La terra degli uomini rossi – Birdwatches fu invitato in concorso alla Mostra di Venezia del 2008. Ho chiesto al Festival di invitare i cinque attori indigeni protagonisti, tre adolescenti Kiki, Abrisio ed Eliane – e due adulti, Ambrosio e Alicelia. Era la prima volta che prendevano un aereo ma lo hanno vissuto come un fatto normale, senza alcun clamore. A Venezia i tre indigeni maschi si sono vestiti come me in giacca e cravatta e le due indigene hanno indossato abiti da sera. Per loro ci furono diverse ore di prove prima della presentazione ufficiale, scelsero liberamente i vestiti e le scarpe con i tacchi come se li avessero già indossate molte altre volte. Mentre camminavamo sul tappeto rosso verso la proiezione ufficiale, le due indigene, elegantissime, si fermarono a salutare gli spettatori assiepati ai margini del percorso, e lo facevano con la naturalezza di due star. I cinque indigeni assorbivano l’esperienza che stavano vivendo, consci che sarebbe tutto finito qualche giorno dopo, che sarebbero tornati alla loro dura vita nei villaggi. Non nutrivano alcuna illusione, erano coscienti di vivere un’esperienza unica ma che non avrebbe modificato la loro essenza. Erano ben piantati a terra così come i guaranì del XV secolo di fronte ai coloni portoghesi che sbarcavano con tutte le loro meraviglie.
Al Lido, mentre aspettavamo la barca, ho trovato i due adolescenti Kiki e Abrisio sdraiati sul molo: stavano acchiappando al volo dei piccoli pesci con un gesto fulmineo della mano. Siamo saliti tutti sul motoscafo per la stazione, Kiki e Abrisio con le tasche piene di pesciolini che si dibattevano, io di fianco ad Ambrosio fuori dal cabinato. Era molto attento dietro i suoi occhiali scuri, guardava il Canal Grande. Gli ho detto, tentando di fare la guida turistica: “Ambrosio, la città di Venezia è molto vecchia, non così vecchia come i Kaiowà, ma è molto vecchia”. Lui ha riguardato piazza San Marco da lontano e ha risposto: “Marco, secondo me non è vecchia, è solo molto usata”. Era quella sua logica “altra” che mi aveva sempre spiazzato durante il nostro lavoro. Il film senza la sua genialità non sarebbe stato lo stesso.
Ambrosio è morto quattro anni dopo: lo hanno trovato con una ferita da taglio in pancia sul bordo della strada di terra rossa che porta a Guya Rocha, la sua bicicletta gettata in un fosso. Lo ha ucciso un suo cognato, armato dai fazendeiros che sapevano che Ambrosio non avrebbe mai lasciato quelle terre. Un finale come quello del suo personaggio nel film che muore per un colpo di fucile, tradito da un membro della sua comunità.
Quando abbiamo girato la scena, siamo stati costretti a ripeterla molte volte. Ambrosio cadeva a terra, ma non era convincente: non riusciva a morire, non gli piaceva l’idea che lo vedessero morto, neanche in un film. Ma quando gli ho spiegato quanto era importante che il personaggio morisse, ricordandogli che non stava morendo lui, ma il suo personaggio, fece ancora una volta un ciak e risultò molto convincente.
Ambrosio è un leader continentale e molti altri leader oggi portano avanti il suo sogno di “Nazione Guaranì”, una rete transnazionale che unisca i guaranì divisi in quattro Paesi: quelli del Mato Grosso do Sul e di Rio Grande do Sul in Brasile; quelli del Chaco Paraguayo; quelli di Santa Cruz de La Sierra in Bolivia; quelli di Missiones in Argentina. Non vogliono solo riprendersi le loro terre ma tornare a essere un unico popolo, come era in passato quando sfidava a testa alta l’impero Inca ai piedi della Cordillera delle Ande. I guaranì di tutto il continente considerano oggi Ambrosio il loro eroe, il sognatore della “Naciòn Guaranì”, così come Simon Bolivar, el Libertador, guidò la confederazione di nazioni latinoamericane che si ribellarono agli stati coloniali europei.
Un giorno Ambrosio volle mostrarmi qualcosa di segreto. Eravamo a Guya Rocha: prese una scatola di legno che teneva nascosta, la aprì e tirò fuori delle piccolissime pannocchie di mais. Non ne avevo mai viste di così piccole. Mi disse che non poteva piantare quei semi antichissimi e segreti perché c’era qualcosa nell’aria che li avrebbe contaminati. Non aveva bisogno di test scientifici: con la sua cultura millenaria sapeva che la soia ed il mais transgenico contaminavano le loro coltivazioni. Conosceva la terra, la sentiva, era parte della terra. La vita di Ambrosio è la prova che la sopravvivenza degli indigeni è la garanzia della nostra stessa sopravvivenza nel Pianeta Terra.