la Repubblica, 23 febbraio 2018
Quando le donne sfatarono un tabù. E fu subito calcio
Se è vero che la partita di pallone è l’apoteosi domenicale del maschio italico, quello del 23 febbraio 1968 fu un contropiede spiazzante: per la prima volta scendeva in campo a Viareggio la Nazionale Italiana di Calcio Femminile. E fu anche un esordio nel segno della vittoria, che per 2-1 rispedì oltre cortina la Cecoslovacchia di un’imminente Primavera di Praga. Inutile dire che nelle accademie dei bar le ironie si sprecarono, per quella che apparve ai mariti un’indebita invasione di campo, cui per altro strideva un barlume di reciprocità, a meno di non varare una Nazionale Maschile di Uncinetto.
Niente di nuovo. Era il 1917 quando le operaie di una fabbrica inglese di munizioni decisero di mettersi a giocare a football in partite di beneficenza: i signori uomini lì per lì incoraggiarono l’iniziativa come fosse una corsa nei sacchi fra fatine burlone, ma il loro disappunto crebbe a dismisura quando le Dick Kerr’s Ladies cominciarono a mietere successi e a far parlare di sé perfino oltremanica, fino a quella leggendaria partita che le vide riempire lo stadio di Liverpool con oltre cinquantamila tifosi. Direte: fu il loro trionfo. Sì, ma anche l’epilogo, perché la Football Association (evidentemente punta sul vivo) reagì vietando alle donne anche solo di posare il piede su un campo da calcio.
Motivazione? Era uno sport inadatto alla loro fisiologia.Proprio come sentenziò qui da noi negli anni ’30 un Coni in camicia nera, inflessibile nel proibire alle signorine non solo l’iscrizione ai tornei di calcio, ma anche la disputa di singole partite: si dedicassero alla ginnastica ritmica, che il pallone era roba da camerati.
Quando si dice l’oscurantismo: mentre Roma sbarrava gli stadi alle italiane, Teheran si vantava del suo undici in rosa al punto tale che già nel 1941 si disputò l’incontro fra iraniane e afgane.
Sarà che noi civilissimi europei siamo tutti figli sportivi di DeCoubertin, sempre esplicito nel dire che il gentil sesso avrà dato anche le Amazzoni, ma nelle Olimpiadi moderne si limitasse a incoronare i maschietti. Insomma: la Nike di Samotracia retrocessa a valletta. E dire che nella classifica Fifa dei migliori calciatori di ogni tempo ci sono due donne, le americane Michelle Akers e Mia Hamm, con quest’ultima che è un vero monumento alla forza di volontà, visto che da bambina era affetta da una malformazione congenita ai piedi: come si possa passare dalla scarpe correttive a tre medaglie olimpiche è uno di quei racconti che entrano a pieno diritto nell’epica del calcio, senza distinzioni di genere che lascerei volentieri sulle porte dei bagni.
Ancora: siccome nell’Olimpo dei cannonieri non potrà mai mancare una presenza carioca, ecco rispondere all’appello la brasiliana Marta Vieira da Silva, un’autentica regina del calcio internazionale, se non fosse che i club femminili, privi di diritti televisivi, falliscono uno dopo l’altro senza saldarle le buste paga. Peccato, perché Marta è superiore perfino a Pelé per numero di reti in verdeoro (giuro: 98 contro 95): altro che incapacità fisiologica, altro che handicappate in via di rivalutazione, secondo il copyright del sempre propizio Tavecchio, ex presidente Figc e dunque anche del calcio femminile (che è un po’ come mettere Erode alla presidenza dell’Unicef). La verità è che la negazione dell’evidenza assume a volte proporzioni ridicole, soprattutto se implica il crollo di luoghi comuni più che stantii.
Ne sa qualcosa la capocannoniera della Guinea Equatoriale, che nel 2008 dopo aver segnato il goal che valeva il trofeo della Coppa continentale, si vide convocare dai massimi dirigenti del football africano: troppo brava come calciatrice, si mostrasse nuda per smentire d’esser uomo. Duro mestiere competere coi maschi in un mondo di maschilisti, e di questa arretratezza da Pleistocene il mondo dello sport è amara metafora, con dozzine di campioni e sparute campionesse. Vai a dirglielo che la spartana Cinisca, trionfatrice ai Giochi di Olimpia, si era meritata tanto di statue: sono passati 2400 anni, e fra non molto l’uomo sbarcherà su Marte. Meglio sarebbe, ogni tanto, far tappa anche su Venere.
L’autore è drammaturgo, scrittore e regista teatrale italiano