Corriere della Sera, 23 febbraio 2018
La nuova vita di Harry Potter
Il biologo Richard Dawkins, ateo militante, attribuisce la diffusione capillare e globale delle religioni a una serie di cause, tra le quali c’è, secondo lui, l’influenzabilità dei bambini – genitori religiosi insegneranno precetti di fede ai figli, regalando così un vantaggio in partenza al fronte dei credenti rispetto a quello dei non credenti. È una tesi sulla quale dibattere, ma se il culto di Harry Potter fosse una religione sarebbe difficile negare che Dawkins abbia ragione: perché i ragazzi che vent’anni fa facevano la fila a mezzanotte davanti alle librerie in attesa dell’arrivo del nuovo episodio della saga di J.K. Rowling (gli ebook da scaricare sull’iPad non esistevano ancora) oggi sono genitori. E hanno cresciuto la loro prole con le storie del maghetto con gli occhiali.
Impossibile non pensare al rinnovato successo di Harry Potter davanti alla febbre, a Broadway, per l’arrivo della piéce teatrale che racconta Harry adulto (e padre), «Harry Potter and the Cursed Child» e che ha già debuttato nel West End a Londra. C’è anche Milano, sulla mappa globale di questo fenomeno: «Harry Potter: the exhibition», è la mostra che registrerà un prevedibile tutto esaurito alla Fabbrica del Vapore (dal 12 maggio al 9 settembre, informazioni su www.harrypotterexhibition.it ). Il mondo di Harry e dei suoi amici (e dei suoi nemici): i cimeli, le installazioni, costumi e memorabilia divisi in nove sale (1.600 metri quadrati).
Quando uscì nel Regno Unito «Harry Potter e la pietra filosofale», il 26 giugno 1997, J.K. Rowling era una sconosciuta (o meglio uno sconosciuto: l’uso delle iniziali invece del suo nome per esteso fece sì che molti pensassero che si trattasse di un uomo), l’editore non aveva particolari aspettative (la prima edizione ora vale più di 80 mila euro), era inimmaginabile il successivo giro d’affari. Tra libri (oltre mezzo miliardo di copie nel mondo, 160 milioni nei soli Stati Uniti), film hollywoodiani (6,25 miliardi di euro incassati al botteghino), merchandising, Harry è una macchina da soldi destinata, probabilmente, a non finire mai (o almeno finché non ne scadranno i diritti d’autore).
L’autrice – e questo la fa amare anche da molti di quelli che non necessariamente amano i suoi libri – è il volto umano al centro di questa enorme macchina che genera profitti: refrattaria alle interviste comunica più che altro via Twitter, e ricorda di frequente al mondo che Harry non è semplicemente un James Bond senza Martini o uno Sherlock Holmes senza Dottor Watson (e senza endovenose di cocaina), ma è il simbolo di qualcosa di più importante: l’umanità.
Nel ventesimo anniversario dell’uscita in libreria del suo romanzo d’esordio, l’estate scorsa, si limitò a scrivere su Twitter che «vent’anni fa esatti il mondo nel quale avevo vissuto da sola si aprì, all’improvviso, agli altri. È stato bellissimo. Grazie». Spesso gli autori non sono bravi critici del loro lavoro ma in questo caso Rowling ha spiegato con sintesi mirabile il segreto del fenomeno Harry Potter: la condivisione, tra un pubblico che si è rivelato enorme – e sempre in aumento: i genitori trasmettono la passione ai loro figli – di un mondo speciale, aperto a tutti – specialmente a quelli che si sentono un po’ diversi da tutti gli altri. Un po’ speciali, forse. I libri, i film, la piéce e le mostre sono la celebrazione di questo rituale, basato sulla condivisione della stessa esperienza. È così che funziona la magia.