Corriere della Sera, 23 febbraio 2018
La lotta giusta e dimenticata contro le droghe
La chiesetta in cima alla strada bianca non è né bella né brutta. È anonima, fredda. Non ti viene da pensare che lì dentro c’è Gesù. La povera Pamela, poi, ci deve essere arrivata col fiatone, tutta quella salita trascinandosi il trolley; lo stesso che di lì a poche ore, dopo il vilipendio, sarebbe stato usato dai carnefici per trasportare i suoi resti. È su quella strada che incontra l’ultima persona disposta ad aiutarla: un’operatrice della comunità Pars che la riconosce, capisce che se ne sta andando, la invita a tornare indietro con lei.
N on ci riuscirà. Inizia da lì la catena di eventi, in gran parte ancora misteriosi, che hanno sconvolto l’Italia: i fatti di Macerata, destinati a far sentire la loro eco fin nelle urne del 4 marzo.
Da quel giorno, infatti, infuria lo scontro sulle cause di quegli eventi. Di chi la colpa di ciò che è successo? Mirko Canevaro, sul Fatto, ne ha stilato un amaro catalogo: è colpa degli immigrati, e di chi li ha fatti entrare; no, è colpa dei razzisti che sparano contro immigrati che non c’entrano niente; però se ci sono i razzisti è perché gli immigrati sono troppi; no, è colpa del nuovo fascismo che ci fa credere che gli immigrati siano troppi. E così via. Per averla vinta, alcune frange violente hanno ripreso anche a pestarsi reciprocamente, tanto per cambiare. Ultima entry nel novero dei capri espiatori perfino la comunità che ospitava Pamela su richiesta del Sert di Roma: perché non l’hanno fermata lì, in mezzo ai campi? Ma, per fortuna, nessuno può fermare nessuno in Italia, a meno che non ci sia un ordine del magistrato o un «trattamento sanitario obbligatorio». Pamela era una donna libera, anche se ancora disperatamente bisognosa di protezione. La comunità avvisò, come da prassi, famiglia e forze dell’ordine, le uniche che da quel momento in poi avrebbero potuto aiutarla. Eppure è significativo che, in questa spasmodica gara a trovare un presunto colpevole, nessuno dica che un colpevole certo c’è, e che si chiama droga. C’è chi fa la lotta agli immigrati e chi fa la lotta al razzismo, ma nessuno fa più la lotta alle droghe.
Un tempo fu un programma politico che coinvolgeva destra e sinistra. Dall’inizio della Seconda repubblica la lotta alla droga, dicitura rimasta appiccicata solo a un fondo ministeriale sempre più vuoto di soldi e di iniziative di prevenzione, è stata sostituita dalla politica della «riduzione del danno». Ma mentre è essenziale aiutare il percorso di recupero da una dipendenza riducendo il danno per il paziente, è ipocrita usarla nella realtà come una forma di controllo sociale. Sostanze sostitutive nei Sert e psicofarmaci nel reparti di psichiatria non bastano per combattere una battaglia culturale contro l’uso delle droghe e contro il disagio esistenziale che ne è alla base. Il danno viene sì ridotto, quando va bene; ma il problema è spazzato sotto il tappeto. E basta una sola volta che falliamo, come con Pamela, per farci capire che questa non è la via.
Anche le comunità sono in crisi; crisi ideale dopo che un po’ alla volta si è esaurita la spinta carismatica delle prime pionieristiche esperienze. Prevale la burocrazia: le Regioni pagano una retta per ogni ospite, in alcune realtà è troppo bassa per garantire un’alta qualità del lavoro di recupero, e lo sanno tutti. Casi complessi come Pamela, che in gergo vengono definiti di «doppia diagnosi», in cui cioè alla dipendenza si somma un serio problema psichico, vengono rifiutati da molti; per questo dal Lazio era arrivata fin qui, nella comunità vicino Macerata (dove ha conosciuto anche altri nigeriani, come i cinque bambini figli della grande ondata di profughi scappati dai massacri di Boko Haram, che vi sono ospitati). Del resto la legge che regolamenta il sistema dei servizi risale ai tempi di Andreotti, è del 1990. La conferenza nazionale sulle politiche anti-droga, che quella legge prevedeva ogni tre anni per adeguarsi ai cambiamenti, si è tenuta l’ultima volta nel 2009, nove anni fa. Il grande silenzio. E nel frattempo le droghe sono cambiate, sono cambiati i principi attivi che contengono, è cambiato il mercato dove si possono trovare fino a mille sostanze psicotrope diverse.
La domanda è dunque legittima: ci abbiamo rinunciato? Abbiamo dato per persa la battaglia per ridurre l’uso delle sostanze stupefacenti? In trincea sono rimasti solo pochi genitori coraggiosi, come i due eroi civili Giampietro Ghidini e Carolina Bocca, cui il settimanale «Buone notizie» ha dedicato una copertina.
Sinistra e destra, in tutt’altro affaccendate, si guardano in cagnesco, ognuna avvolta in una bandiera, proibizionista o libertaria che sia; e sul tema non si parlano più neanche dopo una tragedia come quella di Macerata. «Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, trascinarsi in cerca di droga rabbiosa...», scriveva Allen Ginsberg nel 1955. Oggi lo chiamiamo «uso ricreativo».