Il Sole 24 Ore, 22 febbraio 2018
L’Odissea di Kazantzakis
L’Odissea di Nikos Kazantzakis (1883-1957) è un poema di 33.333 versi, monumentale e ardimentosa prosecuzione dell’epos omerico, che alcuni critici hanno definito la singola opera letteraria più ambiziosa del XX secolo. Racconta la vicenda di Ulisse dopo il suo ritorno a Itaca, dove non viene accolto bene, responsabile com’è della morte degli uomini dell’isola. Costruisce quindi una nave, assolda una ciurma brancaleonesca e si rimette in mare. Prima mèta Sparta, a trovare il vecchio amico Menelao, che trova invecchiato e imbolsito, e che si rifiuta di ripartire con lui. Allora rapisce per la seconda volta l’ancora bella e consenziente Elena, ma presto l’abbandona, votato com’è a seguire un destino di “virtute e canoscenza”. Dopo una tappa a Creta, riparte per l’Africa e naviga il Nilo alla ricerca delle sue sorgenti. Questo però – precisa alla sua ciurma – «non è un viaggio sul fiume, ma un viaggio nell’anima», alla ricerca del senso vero della vita. È anche un viaggio nel tempo, dove Ulisse abbatte tiranni, fonda la Città Ideale di Platone, sant’Agostino e Tommaso Moro (città che sarà distrutta da un terremoto), incontra filosofi e poeti come Nietzsche e Don Chisciotte, Gesù Cristo e la Morte, e vagheggia una nuova religione. Fino alla sua epica morte, che commuoverà il Grande Sole, fonte d’ispirazione dell’intero poema.
Quando, dopo dodici anni di lavoro e sette stesure, fu pubblicata ad Atene nel 1938, l’opera era stata preceduta da una grande attesa. Ma l’accoglienza non fu delle migliori. Molti si scagliarono contro chi aveva osato sfidare il più sacro dei poeti, impossessarsi del suo titolo e descrivere le avventure e i tormenti di un moderno Ulisse. Inoltre, Kazantzakis lo aveva scritto nella lingua demotica (dimotikì, popolare), contro la lingua dotta (katharèvusa), allora prevalente nella letteratura greca. E per la questione della lingua, i fautori dei due idiomi si erano dilaniati per decenni, scatenando moti di piazza in cui era corso il sangue. Il poema, poi, non era di agevole lettura, privo com’era di spiriti e accenti, e farcito di migliaia di lemmi (circa ottomila) non registrati su nessun dizionario.
Quella di Kazantzakis, in realtà, era una rivoluzione linguistica. La sua semplificazione grammaticale, osteggiata dai pochi che allora avevano accesso alla cultura, mirava a rendere comprensibile la lingua del poema anche ai meno istruiti, e anticipava di quasi mezzo secolo una riforma che ufficialmente sarebbe arrivata solo nel 1982, con l’abolizione dei segni diacritici e l’adozione di un sistema monotonico. Non solo, ma – genio lungimirante – Kazantzakis aveva previsto per tempo l’inevitabile estinzione del ricchissimo patrimonio lessicale di pastori, contadini e pescatori, e dei canti popolari tramandati oralmente. Così aveva battuto per anni i villaggi e le isole dell’Egeo armato di taccuini, su cui trascriveva parole bellissime usate per secoli ma destinate a perdersi con l’avvento della “civiltà”. Per salvarle costruì, con i suoi romanzi, ma soprattutto con l’Odissea, un’arca di Noè linguistica che traghettasse queste parole sul monte Ararat del futuro. E appose al tutto il sigillo del suo genio, con il conio di un’infinità di parole di sua creazione. Un esempio: solo per definire Ulisse, Kazantzakis usa decine e decine di epiteti diversi, da “Mente di avvoltoio” a “Occhi stellati”, da “L’uomo dalle due anime” al “Canzona dèi”, da “Distruggifortezze” a “Conoscicuori”.
Operazione meravigliosa, non fosse che ha finito con l’ostacolare quello che lui vagheggiava: la fruizione del suo poema da parte delle classi meno acculturate. Come capire, infatti, con un’istruzione media, migliaia di lemmi non registrati da alcun vocabolario? È vero che lui stesso ha accluso al poema un dizionarietto di duemila lemmi, ma ne restano pur sempre cinque o seimila incomprensibili ai più, e nessuno in Grecia si è preso la briga di compilare un lessico Kazantzakis. Questo fatto, unito alla mole del poema (24 canti in 17 sillabe, metro inusuale nella poesia greca moderna), spiega l’ostilità di molti greci per l’opera di Kazantzakis. E costituisce, naturalmente, la disperazione – anzi, una vera e propria odissea – per i suoi traduttori, me compreso. In mancanza di un lessico dedicato, io sono costretto a battere la stessa via di Kazantzakis: non già le isole e i villaggi, ma gli intricati sentieri del web, dove fortunatamente si possono incontrare molte parole “introvabili”.
Il primo traduttore dell’Odissea è stato un geniale grecista americano, Kimon Friar, che ha però avuto il vantaggio dell’amicizia di Kazantzakis. Autentico capolavoro a sé, la versione di Friar (1958) negli Stati Uniti ha venduto 200mila copie ed è disponibile in pdf sulla rete. Ne esiste anche una versione francese (in prosa), una in Cile, una in tedesco (appena ristampata in un tomo di 1.800 pagine con testo greco a fronte), e una in svedese. Quella italiana, fatta da me, sarà ultimata entro l’anno e vedrà la luce nel 2019. Incoraggiando il mio lavoro, il traduttore svedese, Gottfried Grunewald, mi ha scritto: «Bravo, traduci l’Odissea di Kazantzakis, ti allunga la vita». Detto da uno che oggi ha 114 anni è un bell’auspicio.