Il Messaggero, 22 febbraio 2018
Disconnessi ma infelici, così si vive senza cellulari
ROMA Notifiche, notifiche, notifiche. In epoca preistorica sbuffavamo se qualcuno telefonava a casa mentre stavamo pranzando. Oggi la nostra vita è un singhiozzo interminabile di bip e vibrazioni tra messaggi su WhastApp, Line, Messenger o Telegram, persino Sms perché qualcuno ancora li usa, mail, Facebook che ci avverte di un like, Twitter o Instagram che vogliono interagire, Google map che ci informa sul traffico verso il lavoro. La striscia alta del display con le notifiche è un albero di Natale di icone: si accumulano e siamo travolti. Altro che Sconnessi, come ipotizza il film.
RICERCA
Motorola, insieme a una esperta di Harvard, Nancy Etcoff, e ad Ipsos ha realizzato uno studio da cui emerge che il 33 per cento delle persone ritiene più importante il proprio smartphone dei rapporti con un proprio caro; chi ha tra i 6 e i 23 anni pensa che lo smartphone sia «il miglior amico», se dovesse perderlo il 65 per cento dei più giovani «andrebbe nel panico». Il 61 per cento degli intervistati vorrebbe una divisione tra la propria vita reale e quella sul device, il telefonino, ma è un desiderio non realizzato: il 49 per cento ammette di controllare compulsivamente lo smartphone. Stanno cambiando i ritmi delle nostre vite, ma siamo in ballo e continuiamo a ballare, perché poi – come racconta il film Sconnessi in uscita oggi – se ci troviamo senza 4g o wi-fi, ci sentiamo nudi e smarriti, convinti che sicuramente qualcosa di memorabile stia succedendo in rete: stiamo perdendo l’attimo che non tornerà più. A parole diciamo tutti «quanto sarebbe bello essere irraggiungibili»: e per oggi i protagonisti del film hanno lanciato lo Sconnessi day, invitandoci a fare a meno della rete. Nei fatti siamo in crisi di astinenza quando lo smartphone recita «solo chiamate d’emergenza» e non solo perché magari è il lavoro o la famiglia a imporci/suggerirci di essere reperibili. Il primo gesto al mattino quando ci svegliamo è allungare la mano al comodino, accendere il display e verificare cosa è arrivato nella notte. Vorremmo staccare, ma non vogliamo essere staccati. Quando arriviamo in un paese lontano in cui il roaming costerebbe quanto il biglietto aereo, si presentano tre scenari: acquistiamo una sim usa e getta del posto per restare connessi; in alternativa, appena raggiungiamo la reception dell’hotel prima della chiave della stanza elemosiniamo la password del wi-fi (un albergo senza wi-fi ormai è come se non avesse l’acqua calda); quando ci sediamo nel ristorante in spiaggia a Bali o a Bahia, prima del menu, cerchiamo – assetati – la solita password per il wi-fi. Così lontani, così vicini e connessi. Un tempo quando tornavi da un viaggio di due settimane atterravi a Fiumicino senza sapere cosa era successo in Italia, «cosa ha fatto la Roma?» chiedevi ansimante. Oggi ne sai più di chi è rimasto a casa, perché tra un mojito e l’altro hai avuto più tempo per leggere notizie in rete di chi è rimasto a casa. I luoghi della «sconnessione» sono sempre meno: qualche angolo di montagna o i voli, le 10 ore per Shanghai o le 8 per New York in cui puoi vivere nella bolla e provare l’insolita esperienza della «modalità aereo», anche se molte compagnie mettono a disposizione il wi-fi a bordo. Il problema è che quelle maledette-benedette notifiche sono la nostra ingenua legittimazione, controlliamo nervosi i «like» a un nostro post, come se il futuro immaginato da una puntata della serie visionaria Black mirror, in cui la nostra scalata sociale dipende dai voti che otteniamo in rete, dipendesse dal futile consenso che troviamo nei social. Connessi, connessi sempre, connessi anche quando non vorremmo. E per le nuove generazioni sarà una condizione naturale. Nel mondo esistono più Sim attive che persone, mentre una ricerca di Ericsson del 2017 parla di 5,2 miliardi persone nel mondo connesse.