il Giornale, 22 febbraio 2018
«Non lettori d’Italia vi aspetto a Milano (coi versi di Leopardi)». Intervista a Andrea Kerbaker
Lo scorso anno la prima edizione di Tempo di Libri, l’attesa fiera dell’editoria di Milano, andò male. Tra i motivi: il fatto che non fosse a Milano, ma a Rho. Date che andavano bene a riempire il calendario della Fiera, ma pessime per editori e visitatori. Un direttore – la scrittrice Chiara Valerio – intellettuale. E non c’è nessuno che possa fare più danno alla Cultura di un intellettuale. Quest’anno invece Tempo di Libri (pagato interamente dai privati, cioè dalla Fabbrica del Libro che è per il 51% di Fiera Milano e per il 49% dell’Associazione italiana editori; contributo economico diretto del Comune di Milano imponente: zero euro) andrà benissimo. Perché si svolgerà a Milano (alla vecchia Fiera) e perché il nuovo direttore, Andrea Kerbaker, è un manager. Culturale, ma sempre manager. Milanese, 57 anni, moglie inglese, per vent’anni nella comunicazione dell’industria privata, ramo organizzazione culturale (suoi i concerti al Colosseo e le letture dantesche di Vittorio Sermonti in Santa Maria delle Grazie), oltre che bibliofilo smodato, e scrittore.
Cosa significa essere manager culturale?
«Intrattenere rapporti con molti soggetti. E fare da cinghia di trasmissione, per usare un’espressione vecchia, tra chi fa cultura – editori, scrittori, artisti – e un pubblico più ampio possibile. Il manager è un mediatore. Se c’è, nessuno se ne accorge. Ma se non c’è, è un guaio».
Qual è il pubblico di Tempo di Libri?
«Ci sono i lettori forti che – si spera – vengono da te in automatico. Ma non basta. Poi ci sono i lettori, diciamo così, medio-deboli, che devi andare a cercare nei loro spazi. Potenzialmente sono tanti: i 25mila abbonati del Piccolo Teatro ad esempio, o i 40mila che sono andati a vedere la mostra di Caravaggio. Gente che se sei bravo a comunicare quello che fai, ti segue. Poi c’è il pubblico dei non lettori, la metà degli italiani...».
Che non verranno mai.
«Potrebbero. Se riesci a incuriosirli con le loro passioni. Per i tifosi organizziamo la festa per i 110 anni dell’Inter, per chi ama la musica ci sono Vecchioni e Gabbani... E anche i non-lettori, una volta lì, un libro lo sfogliano...».
Che Tempo di Libri sarà?
«Vario e leggero, secondo il principio della leggerezza di Calvino. Nel senso di sottrazione di peso: voglio parlare di libri in modo non pesante, noioso, polveroso».
Come si fa?
«Preferendo il pop allo snob. Si può fare cultura anche portando Dori Ghezzi a presentare la sua autobiografia, o invitando Mario Nava, il presidente della Consob, a spiegare economia finanziaria ai ragazzi. L’importante è non limitarsi ai soliti giri letterari».
Si dice che tutti i saloni siano uguali. Qui cosa c’è di diverso?
«Molte cose. Ad esempio i Percorsi d’autore: uno scrittore fa da guida a un gruppo di visitatori, portandoli in giro per gli stand, collegati con le cuffie, raccontando storie di libri seguendo un filo rosso ogni volta diverso: il romanzo storico, i gialli milanesi, la ribellione, nei 50 anni del ’68... Un modo diverso per vedere la fiera».
Fino a pochi anni fa Milano, capitale dell’editoria, a parte il salone del Libro antico di Dell’Utri, non aveva nulla. Ora ci sono BookCity, BookPride, la Milanesiana, Tempo di Libri... Non sono troppi?
«Con l’Expo Milano è cresciuta in modo incredibile, e così l’incremento dell’offerta culturale. Il Teatro Franco Parenti aveva una sala, ora quattro, coi laboratori e la piscina... Sono arrivati il Mudec, le Gallerie d’Italia, la Fondazione Prada, l’HangarBicocca... Uno si chiede: ma la città può reggere tutta questa offerta? La risposta è sì. I milanesi si sono abituati. E i non milanesi hanno imparato a pensare Milano come un luogo dove accadono cose belle».
Metà degli italiani non legge nemmeno un libro all’anno, e se lo legge sono le ricette di Cracco. Il 70% degli adulti non comprende un articolo di giornale. Cosa è successo?
«Credo si sia rotto un certo meccanismo di trasmissione a livello di cultura generale tra la nostra generazione e quella dei nostri figli, con un crollo della conoscenza generale. Che non è tanto il non è tanto il sapere accademico, ma quello delle nozioni base della vita di tutti i giorni. Non è un problema sapere la data di nascita di Petrarca. Ma sapere cosa sono Le mie prigioni o riconoscere un Canaletto».
Le colpe? Scuola e famiglia, come sempre?
«C’è stata una difficoltà, da parte del nostro sistema di istruzione, nel mantenere il passo con l’attualità. Noi studiavamo sulla Guida al Novecento del Guglielmino, che aveva come autori Sciascia, di cui poi seguivamo la polemica sull’antimafia sui giornali, o Moravia o Pasolini, che scrivevano sul Corriere. La storia della letteratura continuava in qualche modo sui quotidiani, che almeno sfogliavamo... Il libro era inserito nella contemporaneità. Oggi? A scuola si arriva a Pirandello, e nessuno legge i giornali. Risultato: i ragazzi sanno poco o nulla di quanto è successo nel Dopoguerra».
E le colpe dei genitori?
«Non parlare con i nostri figli quanto i nostri genitori facevano con noi. Li lasciamo troppo con l’iPad? Forse sì. La curiosità per il libro si sviluppa a scuola, ma nasce in famiglia».
I saloni del libro servono?
«Sì. Ma durano cinque giorni. Gli altri 360 bisogna inventarsi qualcosa».
Un vecchio slogan recita: «Piazze piene, librerie vuote». I festival sono pieni di gente, ma nessuno compra libri. Strano, no?
«Ho il sospetto che scatti un fenomeno sostitutivo. Per via delle nuove tecnologie, e non solo, abbiamo tutti sempre meno tempo. Se vado a un incontro in cui uno scrittore mi parla per un’ora del suo libro – e gratis, oltretutto, cosa non di poco conto – poi mi convinco facilmente che non mi serve leggerlo. Ne so già abbastanza. Perché comprarlo? E il tempo per leggerlo, dove lo trovo?».
A proposito di nuove tecnologie: l’e-book come sta? Sopravviverà?
«A fatica. Sfidare un oggetto come il libro di carta, che ha 500 anni di storia e comodità alle spalle, non è facile. Per sostituire le enciclopedie, l’e-book va bene. Per tutto il resto, molto meno. Se vogliamo leggere un documento di più di due pagine, lo stampiamo... E insegnando all’università ho scoperto, empiricamente, che gli studenti che studiano sui libri di carta hanno una preparazione superiore a chi studia on line».
Lei, di carta, nella sua «Kasa del Libro», quanti ne ha?
«Trentamila. Ma li condivido. La Kasa è aperta al pubblico».
Ultimo libro acquistato?
«Un Apollinaire illustrato da Matisse. Comprato con AbeBooks, negli Stati Uniti».
Le librerie tradizionali sopravvivranno?
«Mai stato apocalittico. Certo che sì. C’è spazio per le grandi catene, per Amazon, per gli indipendenti. A ognuno il suo cliente. Come a ogni evento culturale il suo pubblico».
Perché una persona dovrebbe venire a Tempo di Libri?
«Perché lì ha la possibilità di divertirsi, e magari emozionarsi».
Mi faccia un esempio.
«A un certo punto, in uno dei cinque giorni, un altoparlante chiederà a tutti di fermarsi e stare zitti. Nel Salone per due minuti ci sarà un silenzio assoluto. E una voce, duecento anni esatti dopo la sua composizione, leggerà L’infinito di Leopardi. Tutti lo abbiamo imparato a scuola. E tutti ora dobbiamo trasmetterlo agli altri. Dove ti capita una cosa così?».