il Fatto Quotidiano, 22 febbraio 2018
Scambiare Placido per Pattavina per rendere Pirandello “proponibile”
Un anno fa ho scritto sulla mirabile interpretazione del Piacere dell’onestà di Pirandello, regia di Antonio Calenda per lo “Stabile” di Catania: protagonista Pippo Pattavina. Più di recente, di un altro ammirevole Pirandello: i Sei personaggi in cerca d’autore, nell’allestimento del napoletano “Teatro Nazionale”, regia di Luca De Fusco.
I due articoli scaturiscono dalla mia religione pirandelliana; e avevano per comune tema il fatto che quasi non si riesce più a veder messo in scena un dramma del filosofo girgentano col rispetto della didascalia e dello spirito; addirittura, del testo stesso. Ciò vale ormai, ben vero, per Shakespeare, Racine, Molière, Goldoni, Cechov; il caso di Pirandello è aggravato dalla presenza di cretini i quali teorizzano esserne il linguaggio, oltre che il concetto, vecchio e improponibile; doversi quindi “svecchiare” tale linguaggio, per “renderlo attuale” e quindi, in sostanza, render così Pirandello proponibile.
E Pattavina di questa teorizzazione è stato vittima; perché lo “Stabile” della sua città ha preferito privarsi di lui piuttosto che di un regista, tale Michele Placido, che i Sei personaggi ha allestito; “svecchiando”, appunto, il testo. Pattavina non ha accettato e ha rinunciato a lavorare; e nessuno lo ha trattenuto. Ciò mi ha particolarmente ferito, giacché speravo che almeno l’orgoglio siciliano intervenisse a difendere il suo sommo drammaturgo; e anche l’orgoglio catanese, essendo la città patria di Angelo Musco, il primo e grande interprete del Berretto a sonagli; e di Turi Ferro, che, con Salvo Randone, è stato il miglior Ciampa degli ultimi decennî.
Pippo Pattavina è uno dei nostri più grandi attori tragici. Gli attori tragici sono sempre grandi attori comici; il reciproco talora non si dà. Ora egli si è concesso il lusso – lo spettacolo è in scena al catanese “Brancati” – di una serata quasi florilegio, una propria antologia. Canta, recita poesie in lingua e in siciliano, comiche e tragiche; e regala tre sketches d’avanspettacolo avendo quale compagno, assai più che spalla, il dotatissimo Santo Pennisi, catanese di Acireale.
Certe scenette dei De Rege noi vecchi le abbiamo viste interpretate da Totò, poi da Walter Chiari con Carlo Campanini; quindi il confronto è intimidatorio come con Randone e Ferro nel “tragico”. Pattavina ha per cifra stilistica l’understatement, un elegante procedere sotto tono; la sua padronanza dei toni vocali – ovviamente recita senza microfono, uno dei pochi rimasti – gli consente quella voce sommessa che gli è propria, ma anche una serie si sfumature timbriche di rara raffinatezza. Così la grassa comicità delle scenette – per esempio la vendita di penne pornografiche: atmosfera anni Cinquanta – diviene talora astratta. Dietro ogni siciliano può esserci un naturale surrealismo, forse inventato da Gorgia da Lentini e poi incarnato supremamente da Pirandello. Di tale surrealismo Pattavina è l’ultimo erede isolano. Egli è un grande anche fuori da Pirandello. Se ho fatto l’auspicio di poter vederlo impersonare il protagonista del Berretto a sonagli (egli mi dice di aver “fatto” solo Fifì e il Delegato Spanò), allo stesso modo vorrei che qualche teatro riallestisse Il malato immaginario con la sua regia, La governante di Brancati, e tanto altro.
Non ne esistono nemmeno registrazioni; e di testimonianze come queste abbiamo bisogno, per memoria storica. Saranno manoscritti messi in una bottiglia, nella speranza che in un improbabile futuro qualcuno li legga.