La Stampa, 22 febbraio 2018
Nel cuore dell’Amazzonia sulle tracce di Vargas Llosa
Almeno una volta nella vita chiunque dovrebbe avere la possibilità di vedere a occhio nudo alcuni portentosi paesaggi come la foresta amazzonica. Sappiamo però che così non può essere. E allora esiste la scrittura che insieme alla fotografia permette di viaggiare. In questo senso un contributo importante diede il premio Nobel Mario Vargas Llosa, scrittore peruviano che raccontò il proprio Paese in innumerevoli opere come La Casa Verde, la cui trama nacque da un viaggio nel multiforme universo dell’Amazzonia peruviana. Raccontava del destino degli indios, dalla violenza dei conquistatori alla conversione forzata e allo sfruttamento economico della modernità.
Oggi le cose sono evidentemente cambiate, i caucheros che accumulavano fortune mandando i nativi a estrarre il caucciù hanno fatto il loro tempo, ma la «selva», come i locali la chiamano, non smette di stregare chi decide di farle visita. È magnetica e ancestrale, è inaudita.
Dopo aver vissuto le intense giornate che a novembre Lima ha dedicato a Mistura, la più importante manifestazione gastronomica del Paese in cui cuochi e agricoltori si sono radunati arrivando da ogni parte del Perù, l’unico modo per comprendere a fondo alcuni dei loro racconti è partire alla volta della foresta. Questo è il tempo in cui il cosiddetto polmone del mondo ha iniziato a splendere più forte, come una grande dispensa che attira l’attenzione degli chef (Ferran Adria è uno di loro ma anche i peruviani Virgilio Martínez e Pedro Miguel Schiaffino vi si stanno dedicando, con i loro menù nei ristoranti capitolini) e che garantisce la diversità, la freschezza, il colore e il gusto degli ingredienti che sembrano essere stati nascosti per troppo tempo, quando invece le popolazioni del luogo li hanno sempre utilizzati per la sopravvivenza.
In meno di due ore di volo partendo da Lima (l’alternativa è una lunghissima navigazione) si giunge a Iquitos, la capitale amazzonica, l’unica vera e propria città, circondata da acqua e foresta sterminata. I suoi abitanti vivono di miti e leggende, molti discendono dai nativi che un tempo abitavano queste zone, oggi anche loro sono stati travolti dal vento impetuoso del progresso e trovare quei pochi che hanno mantenuto una vita priva di contatto con la civiltà è quasi impossibile, se non altro per le difficoltà nell’addentrarsi nella foresta dove vivono. Avvicinarsi al loro essere è però possibile attraverso il cibo, simbolo e identità di ogni popolo. Qui giungono sempre più turisti ma continua a rimanere uno di quei luoghi «non per tutti». Non avventuratevi, la scelta migliore è affidarsi a chi conosce davvero questi posti e le sue genti come Perù Responsabile, il tour operator gestito da italiani che vivono in Perù, in grado di mettere in piedi un viaggio-esperienza su misura e rendere accessibili i cosiddetti «viaggi per pochi» in ogni parte del Paese, anche nel cuore dell’Amazzonia. La mia guida è stata Daniel che a Iquitos vive e che mi ha permesso di avvicinarmi agli usi e costumi locali. Come se non nei mercati cittadini? Quello di Belèn è il principale che prende il nome dal quartiere dove 152 anni fa è nato, sulle rive del Rio Itaya. Il barrio è diviso in due parti, quella alta che ospita l’enorme mercato, cuore pulsante del commercio cittadino, e la parte bassa chiamata Pueblo Libre de Belén, la zona più popolata e marginale della città conosciuta anche come la «Venezia dell’Amazzonia» perché da gennaio a giugno l’acqua del fiume inonda l’abitato e la popolazione si attrezza con palafitte e passerelle.
Oggi conta 15 mila persone e 1300 banchi in cui comprare e assaggiare quanto la natura offre, a cominciare da un trionfo di carni esotiche (tranne il delfino, nel fiume nuota anche una specie rosa, che qui è ritenuto sacro). Animale simbolo è l’enorme pesce d’acqua dolce paiche, specie recuperata dall’estinzione, da gustare cucinato alla brace o in zuppa, accanto a lui sui banchi di legno sono in vendita caimani, tartarughe, scimmie, armadilli, roditori come l’aguti e il majaz spesso accompagnati da purè di aglio ed esaltati tramite l’asado (cottura alla brace accompagnata da verdure e cuori di palma), le larve commestibili chiamate suri arrostite al momento, pesci essiccati, caracoles (lumache) di fiume grandi quanto una mano, trippe, il copoazu simile al cacao, radici, frutti inediti e la bevanda tradizionale chiamata masato (o hueno nella lingua indigena Shawi) a base di yuca che le donne masticano per ore fino a creare un purè che con la saliva fermenta. Un vortice di colori, odori e rumori compongono una quotidianità alquanto caotica ma che rappresenta la vita dei suoi abitanti: i venditori urlano, i clienti contrattano, tutti cercano l’affare. È da qui che arrivano alcuni dei prodotti utilizzati sulle tavole dei grandi cuochi di Lima impegnati nel boom della cucina amazzonica, la «cocina de la selva».