La Stampa, 22 febbraio 2018
Meno tasse e più incentivi. Così settemila imprese italiane hanno scelto l’Est Europa
Alla fiera dell’Est, per due soldi si possono fare grandi affari. L’allargamento dell’Unione Europea verso Oriente ha aperto una finestra alle imprese. Pur restando all’interno del mercato unico, possono trasferirsi e produrre a costi nettamente inferiori. E fa niente se, andandosene, lasciano senza lavoro i vecchi dipendenti. Qui, nelle terre post-comuniste, la manodopera costa meno, l’energia pure e la situazione sindacale offre un terreno meno ostico per le aziende. Si stima che dall’Italia se ne siano andate circa settemila aziende, prevalentemente in Romania, Ungheria, Bulgaria e Polonia.
Dumping salariale, dumping sociale, ma c’è anche un notevole dumping fiscale. Ora però gli altri Stati Ue iniziano a non supportare il divario, tollerato in un primo momento per consentire a questi Paesi di crescere a un ritmo più elevato e quindi mettersi alla pari. Ora, e il caso della Embraco fuggita in Slovacchia lo dimostra, c’è il rischio di una forte concorrenza sleale. C’è la volontà di correre ai ripari. Trovare gli strumenti per correggere le distorsioni non è semplice, ma la rigida applicazione delle norme sulla concorrenza e la leva dei fondi europei sono al momento le due armi che i leader vogliono usare per difendersi.
Proprio domani inizieranno le discussioni sul prossimo bilancio europeo post 2020 e il dibattito rischia di infiammarsi sulle cosiddette “condizionalità”. Ossia i nuovi criteri a cui legare l’erogazione dei fondi Ue, che per i Paesi dell’Europa orientale sono ossigeno puro. L’attacco è su più fronti. Da un lato c’è la volontà di chiudere il rubinetto ai Paesi che mettono a rischio i princìpi dello Stato di diritto (Polonia, Ungheria e Romania gli osservati speciali), dall’altro si vogliono colpire quelli che non accettano i rifugiati. La Francia è invece la capofila della battaglia che si gioca sul terreno fiscale. Nel mirino di Macron non ci sono solo i noti paradisi intra-Ue come Lussemburgo, Irlanda o Malta, che attirano le multinazionali in cambio di trattamenti di favore. Il presidente francese parla di “armonizzazione fiscale” per l’intera Ue e guarda anche a Est. Il tema è di stretta competenza nazionale, ma Parigi vorrebbe introdurre una condizionalità sui fondi legata all’imposta sulle società. Certamente non per portare tutti allo stesso livello, ma per limare il più possibile le differenze e soprattutto per allineare l’ambito di applicazione.
A oggi la situazione è molto articolata. A livello europeo, il tasso medio per l’imposta sulle società è del 21,5%. Quello italiano è del 24%, mentre in Francia arriva a sfondare quota 33%. Molto lontani dal 16% che offre la Romania o addirittura dal 10% garantito dalla Bulgaria. Valori che, è bene ricordarlo, sono al netto di incentivi e accordi specifici. La Polonia, per esempio, offre un regime altamente competitivo per alcune Zone Economiche Speciali, dove gli utili sono detassati, esistono incentivi sulle assunzioni e sgravi sui servizi doganali. Interventi che spesso finiscono per abbattere quasi completamente i costi fiscali per le imprese. Un report dello scorso anno prodotto da un gruppo di Ong di sei diversi Paesi dell’Est (“Chi paga le tasse nell’Europa Centrale e Orientale?”) ha analizzato il tasso effettivo applicato alle multinazionali. E dallo studio emerge che, per esempio, le prime dieci grandi aziende attive in Ungheria – dove la “corporate tax” è del 9% – hanno usufruito di un tasso medio dello 0,35%.
Oltre a un regime fiscale più morbido, c’è poi la questione del gap salariale. Che è inevitabilmente legato al costo della e quindi presenta un quadro tanto variegato quanto difficile da armonizzare. Se in Europa il costo medio del lavoro è di 24,4 euro l’ora (in Italia sale a 27,8 euro), nella Slovacchia che accoglie Embraco si aggira attorno ai 10,4 euro l’ora, ma scende intorno agli 8,6 euro in Polonia per crollare fino ai 5,5 euro in Romania e addirittura 4,4 euro in Bulgaria. Il tema del dumping salariale tocca anche un altro aspetto, quello dei lavoratori distaccati. Che vengono mandati a lavorare nei Paesi dell’Europa occidentale, ma per conto delle loro aziende con sede nell’Est. Ricevono lo stesso trattamento economico che spetta loro nel Paese d’origine e finiscono per fare concorrenza ai lavoratori “locali”. Recentemente i governi Ue hanno trovato un accordo per ridurre a 12 mesi (prorogabili di altri sei) il periodo massimo del distacco, con l’obbligo per l’azienda di riconoscere al lavoratore tutti i bonus (tredicesima o scatti di anzianità) previsti dalla normativa in vigore nel Paese ospitante.