La Stampa, 21 febbraio 2018
La sconfitta dell’Isis riaccende la guerra fra i due eterni rivali
La periferia di Damasco martellata dall’aviazione governativa, con centinaia di vittime, mentre i mortai dei ribelli colpiscono i quartieri dei lealisti. La Turchia che interviene nel Nord e si scontra con le milizie sciite alleate di Damasco e i guerriglieri curdi, e intanto i gruppi sostenuti da Ankara contendono agli jihadisti eredi di Al-Qaeda la città di Idlib. La Siria del febbraio 2018 assomiglia molto a quella del 2013. Potenze regionali che si sfidano con i loro eserciti per procura, i civili stretti in mezzo, in ostaggio e massacrati.
Come nel 2013 i duellanti più accaniti, spinti da un’antipatia personale insuperabile, sono Bashar al-Assad e Recep Tayyip Erdogan. Nell’enclave curda di Afrin sembra essere arrivata la resa dei conti, a lungo rimandata.
Assad è riuscito a stoppare le ambizioni del leader turco sul Nord della Siria, e in particolare su Aleppo, con l’aiuto prima delle milizie sciite inviate dall’Iran, poi con l’intervento diretto dei russi. Ma la mossa vincente l’aveva decisa, da solo, alla fine del 2012, quando aveva ritirato le sue truppe dai territori curdi e «appaltato» ai guerriglieri dello Ypg la difesa dei confini contro i gruppi jihadisti.
I curdi hanno difeso Afrin, ma anche Kobane, Hasakah, Qamishlo, e alcuni quartieri della stessa Aleppo. Solo l’irruzione devastante dell’Isis, nel 2014, li aveva messi con le spalle al muro, ma poi erano arrivati i raid e le truppe speciali americane a salvarli. L’alleanza con gli americani non ha però precluso lo Ypg da accordi locali con Damasco. Assad si teneva la carta curda nella manica e ha deciso di giocarla ora, anche contro il consiglio di Vladimir Putin, che ritiene prematuro un confronto aperto con la Turchia. Ma il raiss si sente sicuro dell’appoggio dei Pasdaran e vuole rischiare.
I rapporti di forza sul terreno sono diversi dal 2013. Il regime allora controllava solo un quinto della Siria e i proiettili dei mortai dei ribelli cadevano nel giardino del palazzo presidenziale. Oggi Assad ha riconquistato i due terzi del territorio. Erdogan lo ha accusato, persino dopo gli accordi di Soci con la Russia e l’Iran, di aver «le mani sporche di sangue» e «mezzo milione di morti sulla coscienza».
L’odio di Assad per il leader turco ha radici più profonde, nel nazionalismo siriano che è stato anti-turco prima ancora che anti-francese, nella sua visione laica della Siria, con un ruolo guida per le minoranze, opposta all’orgoglio sunnita della Turchia neo-ottomana.
Sono due mondi inconciliabili che neppure Putin può tenere assieme. Per sopravvivere, però, Assad ha dovuto costruire dietro la facciata laica del regime un’armata di milizie settarie. Ha dovuto manovrare le minoranze etnico-religiose, quella sciita, la cristiana, ora quella curda, contro il nemico comune, l’estremismo sunnita alimentato da Turchia e Arabia Saudita. L’azzardo di Afrin è stato deciso su pressione delle milizie sciite, le stesse che per assurdo si sono scontrate con i curdi nella regione di Deir ez-Zour. L’Iran sembra spingere sull’acceleratore, per superare persino la Russia nell’influenza sulla Mesopotamia.
Ma anche la Turchia di oggi è un’altra cosa rispetto al 2013. Erdogan è riuscito, dopo il fallito golpe del 2016, a imporre un regime presidenziale, ha accentrato il potere nelle sue mani, annichilito i nemici interni. Il prezzo però è una società esausta per le purghe e i processi che coinvolgono centinaia di migliaia di persone e hanno indebolito il corpo ufficiali delle forze armate, soprattutto l’aviazione.
I suoi alleati in Siria sono divisi e hanno perso l’aura di «combattenti per la libertà» che avevano nel 2013. Ma ad Afrin Erdogan non può perdere la faccia. Come Assad si gioca il tutto per tutto.