la Repubblica, 21 febbraio 2018
Quel batterio ci salverà dalla plastica
Liberare la Terra dalla plastica fossile (derivata dal petrolio) non è più un’utopia, perché gli scienziati che in tutto il mondo sono impegnati in questa sfida hanno nuovi e straordinari colleghi. Chimici provetti, hanno una curiosa caratteristica comune: sono inumani, ma ancora più capaci di noi di trovare soluzioni “verdi”. Si tratta di funghi, batteri e vermi capaci sia di degradare la plastica tradizionale – come il batterio Ideonella sakaiensis e il fungo Zalerion maritimum, ghiotti di frammenti di PET – che di sintetizzare bioplastica amica dell’ambiente. Quella che oggi ferve in centri di ricerca e università a macchia di leopardo sul Pianeta, con l’Italia tra le avanguardie, è sì ricerca avanzata, ma anche “talent scouting”, perché si tratta di capire quali di queste minuscole e infaticabili “macchine naturali” reclutare e come metterle nelle migliori condizioni per operare.
Perché c’è tanto da fare: nella natura sono dispersi ben 4,9 miliardi di tonnellate di plastica fossile degli 8,3 miliardi prodotti dal 1950 a oggi, dice uno studio recente su Science Advances. La produzione annuale si è ventuplicata in mezzo secolo: oggi supera i 300 milioni di tonnellate, e ogni anno 8 milioni di queste finiscono negli oceani, con il 25% trasportato da soli 10 fiumi, di cui 8 asiatici. Il nuovo piano europeo presentato a gennaio invita soprattutto a ottenere il 100% di riciclabilità delle plastiche fossili entro il 2030, ma cita tra le iniziative più importanti per il futuro delle bioplastiche il progetto Res Urbis coordinato da Mauro Majone, docente di chimica alla Sapienza, che si completerà nel 2019.
«L’idea è trasformare l’umido della raccolta differenziata in una plastica biodegradabile: il poliidrossialcanoato (PHA)» spiega Majone. «Per farlo sfruttiamo microbi anaerobi – che scindono i rifiuti in molecole più semplici – e aerobi che, in presenza di ossigeno, assorbono queste molecole e le convertono in granuli di PHA da estrarre pronti all’uso». Risolvendo due problemi: «Il PHA oggi sul mercato, piuttosto rigido, non è all’altezza delle plastiche tradizionali e necessita di costose colture batteriche selezionate» sottolinea Majone. «Noi invece otterremo polimeri più flessibili, adatti per una vasta gamma di usi, dai sacchetti da supermercato agli imballaggi alla plastica rigida per il telaio dei computer, e con batteri ricavabili a costo zero dagli impianti di depurazione».
«La plastica “verde” sta diventando sempre più economica», concorda Daniel Ducat, biochimico dell’Università del Michigan. «Un esempio: il PHB. È un polimero naturale che certi batteri come gli Halomonas boliviensis producono per immagazzinarlo, come facciamo noi con il grasso. Per farlo hanno bisogno di zucchero, ma usare quello derivato dalle piante porterebbe l’industria bioplastica a competere con gli agricoltori per la terra. E ciò ne impedirebbe un uso di massa». La soluzione? «I cianobatteri, che sanno fabbricare zucchero grazie alla fotosintesi. Li ho ingegnerizzati perché ne rilascino senza sosta. Sono dieci volte più efficienti delle piante perché non dirottano energia per la crescita delle foglie», spiega Ducat. «Lavorando insieme, cianobatteri e Halomonas possono produrre PHB a costi ridotti. Il PHB sul mercato oggi è ottimo per prodotti di alta fascia – quelli per uso medico, come i punti di sutura, essendo un polimero del tutto biocompatibile che non intossica se assorbito dal corpo – ma costa troppo per essere usato nel packaging. Un peccato, perché come barriera al passaggio di ossigeno e acqua, il PHB primeggia tra le bioplastiche, quindi è ideale per le confezioni alimentari».
E l’ambiente ne giova, perché ogni polimero costruito dai microrganismi è sicuramente decomponibile da loro stessi o da altri microrganismi. «Con i batteri possiamo anche realizzare i mattoncini – i monomeri – di una bioplastica molto duttile, il polilattato ( PLA), partendo dalla cellulosa degli scarti vegetali, quindi senza spreco di terra», spiega Roberto Mazzoli, ricercatore dell’Università di Torino che, con la collega Enrica Pessione, è tra le eccellenze italiane del settore. «Il “tuttofare” ideale non esiste in natura ma si può creare in laboratorio: dando a un batterio che sa consumare la cellulosa, come il Clostridium thermocellum, il potere di convertirla in acido lattico oppure rendendo un batterio lattico goloso di cellulosa, ricerca su cui a Torino lavoriamo da un po’ e che ha già prodotto un brevetto». Come rendere il polilattato più competitivo come bioplastica? «Ricavando acido lattico, invece che dalle biomasse che, per la loro produzione, competono con l’uso alimentare, dalla cellulosa che, oltre a essere onnipresente non sottrae nulla all’alimentazione perché non siamo capaci di digerirla».
La cellulosa è anche il cuore di un’innovazione presentata l’8 febbraio a Berlino dall’Istituto Italiano di Tecnologia: «Gli scarti ortofrutticoli possono diventare bioplastica dalle performance simili a quelle, già in uso, derivate dall’amido di mais, che però usano terreno agricolo», spiega Giovanni Perotto dell’Iit. «Tutto sta nell’estrarre le molecole di cellulosa e lignina dai rifiuti vegetali e riassemblarle in oggetti che alla fine del loro ciclo di utilizzo possano tornare nella natura». E subito, non tra mille anni.
Magari ci aiuterà anche la scoperta di nuovi microbi voraci di plastiche fossili. A far ben sperare è uno studio del 2017 dal biologo Ricard Sole ( Università Pompeu Fabra di Barcellona): nonostante la crescita esponenziale nella produzione industriale, le “isole di plastica” dell’Atlantico settentrionale sono meno vaste di quanto ci si aspetti. Forse è in corso un banchetto a noi ancora sconosciuto che, se portato alla luce, potrebbe salvarci.