la Repubblica, 21 febbraio 2018
L’amaca
Vorrei rimediare a un’omissione. E scrivere oggi quello che avrei dovuto scrivere parecchi giorni fa.
Due ragazze molto sole e segnate dalla vita, Pamela e Jessica, quasi coetanee, perfino somiglianti, sono state uccise. La prima a Macerata da delinquenti nigeriani, la seconda a Milano da un farabutto italiano.
Nel secondo caso il movente sessuale è certo, nel primo è probabile. In entrambi i casi il cadavere è stato sottoposto, diciamo così, a pratiche liquidatorie. Smembrato dai suoi assassini nigeriani quello di Pamela, bruciato quello di Jessica, con maldestra approssimazione, dall’assassino italiano, evidentemente non attrezzato al tradizionale rituale della malavita di casa nostra, che è lo scioglimento nell’acido.
Nel caso di Pamela, morta per mano straniera, l’imputazione è diventata “etnica”: al punto che un fascista locale ha creduto giusto e opportuno, per vendicare Pamela, sparare a tutti gli africani incontrati nelle strade della città teatro del delitto. Nel caso di Jessica, a nessuno è saltato in mente di imputare “agli italiani” l’atrocità commessa da un tramviere milanese.
Delle due reazioni, la seconda è quella giusta, ovviamente: sarebbe mostruoso imputare “agli italiani” in quanto tali un delitto commesso da un italiano. Nel primo caso, questa mostruosità è stata invece non solamente messa in atto, ma in varie maniere giustificata da esponenti politici e commenti giornalistici. È un caso di scuola, questo, per dire che sì, effettivamente abbiamo un evidente problema di razzismo.