Corriere della Sera, 21 febbraio 2018
Serve l’università della canzonetta
Non esiste, ci sembra, nessun plausibile motivo per escludere il Festival di Sanremo dai programmi dell’istruzione superiore.tempi non sono forse ancora maturi per riservargli una vera e propria cattedra universitaria, ma fin d’ora risultano evidenti le linee di studio e ricerca da esso suggerite.
Mancano ad esempio strumenti fondamentali quali un’edizione critica dei testi di tutte le canzoni presentate in quella sede, e un grande dizionario biografico di tutti i cantanti che vi si sono esibiti. Manca una storia non meramente événementielle dei successi, degli insuccessi, degli scandali, dei retroscena.
Manca un panorama filologico dell’evoluzione musicale del festival a partire dall’anno di fondazione, manca un’analisi approfondita delle interdipendenze ritmiche, timbriche, melodiche, vocali che ci si sono venute sviluppando nel corso degli anni.
Come ha influito la società italiana sul Festival, e come quest’ultimo ha a sua volta influenzato la società italiana?
Nulla di veramente rigoroso è stato scritto su tali complessi meccanismi dialettici, né sugli aspetti economici della manifestazione: costi, investimenti, profitti diretti e indiretti, eventuali perdite, eventuali operazioni «sommerse».
Meriterebbe un’indagine esaustiva lo snobismo di quanti sono disposti a pagare qualsiasi prezzo per assistervi di persona: ma un corposo saggio andrebbe dedicato allo snobismo capovolto di quanti non vogliono nemmeno sentirne parlare.
Il Festival come momento aggregante della vita familiare: ecco un altro tema di elevato interesse per il sociologo e lo psicologo.
Mentre attendono una messa a punto il Festival e l’immaginario collettivo, il Festival e il collettivo inconscio, il Festival come simbolo di massima partecipazione a un evento, il Festival come simbolo di massima percezione del tedio metafisico. E il Festival e la televisione? Il Festival e la mercificazione della lirica popolare? Il Festival e la sinistra? Il Festival e il management ? Il Festival e l’immagine dell’Italia nel mondo?
Si potrebbe continuare all’infinito, non diversamente da come all’infinito continuiamo a discutere, anno dopo anno, del Mezzogiorno, del diritto di sciopero, della spesa pubblica, della mafia, della giustizia, dei trasporti, degli ospedali, della conservazione del patrimonio artistico...
Dall’alto di quale mai superiorità pratica o etica si vorrebbe tener fuori dalle aule questo fenomeno che s’è ormai guadagnato un suo posto tra le più tradizionali, le più ripetitive, le più vacue esercitazioni retoriche del nostro Paese?